VALERI POETA TRAGICO
Ero ancora molto giovane e abbastanza incosciente quando a Venezia, pressato da grovigli e timidezze assai grandi, ebbi l’idea di spedire a Diego Valeri alcuni dei miei primi racconti. Li avevo battuti a macchina su di una vecchia Olivetti usando della carta ruvida e rozza. A causa del nastro consumato i caratteri di quel dattiloscritto erano in più punti sbiaditi e si leggevano malissimo. Ricordo inoltre come quei miei racconti fossero pieni d’inutili esclamativi, zeppi di puntini di sospensione, e così colmi di enfasi e di errori da renderli per molti aspetti impresentabili e immaturi. Eppure malgrado ciò Valeri volle incoraggiarmi, capì che sotto a quei racconti c’era qualcosa e m’invitò subito ad andare a trovarlo. Conservo ancora quel suo invito vergato a penna, con inchiostro blu, su di una semplice cartolina postale. Ed ho sempre vivo nella memoria quel mio primo, in quella sua casa veneziana nel sestiere di Dorsoduro, in Fondamenta Cereri, vale a dire in un luogo dove una decina di anni dopo, quando ormai ero da poco sposato, sarei andato ad abitare anch’io. Le porte delle nostre due abitazioni a quell’epoca erano proprio l’una a fianco all’altra. Quella di Valeri aveva il numero anagrafico 2448, e la mia 2448/a. Da allora ovviamente ebbi modo di vedere spesso Valeri, semplicemente di salutarlo, e qualche volta di salire nella sua casa con lo studio prospiciente su un rio. Ed ecco il modo in cui più tardi Valeri ha descritto tutto questo: “Ora è l’angoscia dei lumi radi / gialli, sperduti per il nebbione, / l’uno dall’altro staccati, lontani / chiuso ciascuno nel proprio alone. / Riva di pena, canale d’oblio, / non una voce dentro il cuor morto. / Solo quegli urli straziati di addio / dei bastimenti che lasciano il porto.” Infatti proprio quel canale, quel rio, quella riva di pena che nei versi acquista un significato intimo e metaforico, nella realtà era anche un dato oggettivo del paesaggio. D’inverno dalle finestre di Valeri, e dalle mie poco distanti, i fanali apparivano veramente chiusi dentro ad un alone di nebbia che li rendeva lontani. Dal porto di San Basilio di fronte, al di là di uno spiazzo delimitato da una fila di pioppi, giungevano per davvero fischi di navi in partenza. E questo suscitava in lui, nel poeta molto provato da dolorose vicende familiari, un senso di enorme tristezza e malinconia. Per quanto riguarda Valeri come persona, occorre precisare che nei rapporti umani mostrava sempre una naturale affabilità. Molte volte lo vedevo rincasare la sera con passo misurato e un po’ stanco, in testa l’immancabile basco, per rientrare nel suo studio pieno di quadri tra i quali spiccavano delicati ritratti del pittore Pio Semeghini. In quello studio si respirava un’atmosfera di sobrietà, di buon gusto. E tutto ciò apparteneva a un uomo che sebbene coltissimo, poeta e scrittore, docente universitario, francesista, non aveva mai dimenticato le proprie origini, cioè Piove di Sacco, il “paese dei suoi vecchi”, insieme al retaggio di una dolcezza veneta costantemente conservata nel cuore. Come ebbi modo di osservare in un convegno tenutosi il 26 e 27 novembre 1977 presso la Fondazione Giorgio Cini, e dedicato alla memoria del poeta, Diego Valeri pur vivendo in laguna rimane per propria confessione “un animale di pianura”. E si tratta sicuramente di due mondi che egli ha amato in misura uguale. Senza stare ad esaminare nel dettaglio tutta l’opera di Valeri desidero qui affermare e ripetere che non è affatto quell’acquerellista, quell’impressionista, o addirittura quel “petit maître” come alcuni critici l’hanno a volte definito. Io credo che Valeri abbia dato alla poesia qualcosa di più e di meglio di quanto la sua facilità di scrittura lasci supporre. Chi lo sa perché ancora oggi molti pensano che per essere profondi occorra in qualche modo essere arzigogolati e sofisticati. In realtà Valeri è riuscito a far sembrare facile ciò che è difficile. Specie nelle sue ultime raccolte poetiche, Verità di uno e Calle del vento, si è forse ricordato dei lirici greci; e si è rifatto ad essi non per calcolo, ma per quella sua innata disposizione a considerare la poesia prima un dono e poi uno strumento, cioè prima una cosa da dire a se stessi con verità, poi un modello da proporre agli altri con arte. Proprio in un’epoca in cui il panorama della letteratura è andato aggrovigliandosi e il linguaggio non solo della critica ma della poesia è diventato sempre più irto, cifrato e specialistico, Valeri ha continuato a giocare a carte scoperte usando parole comprensibili, spesso le più semplici, accostandosi così sotto un certo profilo ad Umberto Saba che pure, come poeta, è da lui diversissimo. Valeri è quindi un uomo che non ha mai mentito a se stesso, che è vissuto come ha scritto, e alle sue spalle rimane Padova sentita come la città dei suoi studi. Dice in proposito: “Padova ci maturava più che alla laurea, alla vita, poiché mi pare che nulla conforti a ben vivere, cioè a soffrire senza avvilirsi, quanto l’avere dietro di sé una giovinezza che donò fede intera ai suoi sogni”. Oggi purtroppo il nostro orizzonte si è acceso prepotentemente, specie in questi ultimi decenni, di sogni negativi spesso insostenibili. Ma ciò non toglie che proprio per questo, dal suo angolo intatto, Diego Valeri ci parli una lingua che riusciamo a intendere benissimo anche se a volte può fare l’effetto di qualcosa che proviene da un’altra contrada. Per la nostra generazione, per la mia almeno, il paesaggio di Valeri a prima vista sembra qualcosa di molto distante, di archeologico. Proprio ora che le nostre città sono infette di rumore e di traffico Valeri ci parla spesso con gentilezza di bambini, di fiori, e di donne che sono anch’esse fiori naturali. Egli a volte dipinge le cose con tonalità pastello morbide e sfumate. Anche se spesso tra la lievità di quei colori noi scopriamo un fondo d’insospettata intensità che arriva ad esiti altissimi, come ad esempio in quei pochi versi tratti da Campo d’esilio: “Percossi, sradicati alberi siamo / ritti ma spenti, e questa avara terra / che ci porta, non è la nostra terra.” E quindi il finale: “Seme di cenere sotto la neve / e i giorni morti passano invano. / La bellezza moriva lontano / a impossibili rive serene.” Si sente com’è struggente l’idea di questa bellezza che muore a impossibili rive serene. Proprio perché queste rive sono impossibili da raggiungere esse ci offrono un senso di contenuta tragicità. E questo basta a sfatare l’impressione di un Valeri soltanto facile, soltanto delicato, colui che ha scritto, per intenderci, le Fantasie veneziane o le filastrocche per bambini del Campanellino. No, Valeri non ha violato le regole del linguaggio. La sua poesia è così limpida come se sgorgasse da un cuore tranquillo. Ma scostate il velo e guardate più a fondo: sotto a quella superficie levigata troverete in agguato, ben oltre alla musicalità, la desolazione vera di un poeta tragico. “Anacreonte” egli scrive a un certo punto “sei vecchio, sei solo”. Solo là dove ogni uomo avanti negli anni, come per me che firmo queste note, le impossibili rive serene si vivono e si capiscono sempre più ogni giorno. La conclusione per Valeri, se conclusione può chiamarsi, recita così: “Si cammina sul filo degli anni / da esperti funamboli. / È un difficile andare, ma si va.”