LA FENOMENOLOGIA DI RUFFILLI

LA FENOMENOLOGIA DI RUFFILLI

Le cose del mondo di Paolo Ruffilli (Mondadori) è una vera e propria summa fenomenologica, filosofica e filologica, sostenuta e scandita da una spiccata e sottile musica di ritmi e rime. Nel percorrere le 6 sezioni e i 167 pezzi della raccolta, ben si coglie come, attraverso le vicende e le cose del mondo, si trascorra dall’esistenziale all’essenziale, culminando il tutto nel fondamentale interrogativo circa il nostro essere-in (e di) parole. E sembra talvolta che persino Heidegger non sia distante da queste pagine.

La prima sezione, Nell’atto di partire, mette a fuoco le insidie e le illusioni dei nostri sensi di fronte al mondo, scava “l’ombra” e “il riflesso” del mondo e, come nelle sezioni successive, l’oltre le apparenze. È un incipit che mi piace in modo particolare, fin nei suoi talora luridi dettagli; e, come i capitoli successivi, termina con una vitale resilienza, la capacità insomma di assorbire gli urti senza rompersi.

La sezione Morale della favola dispiega una bella lezione di vita, di filosofia e di comportamento, si tratti del padre o della figlia. È qui particolarmente interessante la poesia “La scuola” (pag. 54), con il suo vitalismo – che non esclude il mistero – e con, nuovamente, un invito alla resilienza. Anche la chiusa (pag. 75) è commovente, perché accenna e delinea in modo positivo seppur in tono modesto i contorni della paternità. Quasi inutile sottolineare che questa sezione riecheggia, in positivo, tanti momenti assai più satirici (e negativi) riscontrabili in Piccola colazione (1987) circa l’educazione, i giovani, la scuola e l’università. Ma qui il tono è più pacato, disteso e aperto, e anche intriso di psicologia e filosofia.

La notte bianca è una sezione di forte stampo filosofico, che non elude anzi mette a fuoco i problemi e le contraddizioni (le aporie) della vita e del pensiero, con una visuale e un tono pieni di estrema lucidità, e talvolta punte di attacco disincantato (il poeta, in tutta la raccolta, indaga appunto perché lui sia privo di illusioni, e non ceda mai di fronte ai misteri, pur riconosciuti, della vita e delle cose, e della condizione umana) e addirittura dissacrante.

Le cose del mondo, tema caro al poeta come testimoniano tutte le raccolte precedenti e segnatamente Piccola colazione, fanno eco a un nostro grande antenato in poesia, Francis Ponge, con la sua celebre raccolta Le parti pris des choses (1942). Ma Ruffilli va al di là ed è di grande originalità questo elenco alfabetico delle cose, degli oggetti quotidiani che ci circondano. Molto interessante, tra gli altri, è il testo conclusivo che quasi conferisce, pur senza cancellare né la ragione né il pensiero filosofico, un potere magico e direi surreale a quelle cose di cui Ponge scriveva “le monde muet est notre seule patrie” (ma forse Ponge esagerava…).

Molto arguta e spigliata, anche nel tono e nelle rime, la sezione Atlante anatomico, talvolta pervasa da uno spirito satirico, con una buona dose di humour e di virtuosismo. Ogni pezzo, per una spiccata arguzia linguistica, filologica e filosofica, gioca sul duplice significato e uso (uso in senso figurato e con le locuzioni e frasi fatte e uso in senso proprio e materiale) di ciascuna parte del corpo. Non è esclusa, qua e là, una venatura di erotismo, e perciò tutta la sequenza evoca – per un lettore francese – anche se lontanamente i Blasons du corps féminin cui parteciparono vari poeti minori del Cinquecento in seguito a una iniziativa del più noto Clément Marot. Ovvio ricordare anche il Belli, per il testo di pag. 161 (“Er padre de li santi”) e per quello a pag. 169 (La madre de le sante”), e magari anche il veneziano Giorgio Baffo.

L’ultima sezione, Lingua di fuoco, è sicuramente quella più impegnativa e impegnata, opera di tutta una vita di riflessione sull’esistenza e sulla funzione di mediazione tra vita e pensiero operata dal linguaggio, dalla parola. Una specie di metafisica del linguaggio, basata però sulla concretezza di un’acuta riflessione linguistica, e sorretta dal consueto ritmo tra didattico-settecentesco e modernità dissacratoria. Si incontra qui un moderno nominalismo (pag. 173), un gioco dei paradossi e delle antitesi (contenuto-contenitore, pag. 173; cose vive-cose morte, pag. 179), “tuttità” e poi “zero e plurale”, “l’urlo del silenzio”… fino allo “scontrarsi / per domarla” con la pongiana “resistenza delle cose” (pag. 198), senza mai, da vero poeta, dimenticare la “musica interiore” e quella, palese, di rime e ritmi, qui ancora più compiuta che nelle raccolte precedenti.

Vi sarebbero da citare tante profonde riflessioni, tanti ingegnosi (mai giochi gratuiti) paradossi, tante espressioni argute e acute, coniate con estrema intelligenza e chiaroveggenza. In questi versi così accoglienti e profondi nella loro “sonorità”, nella loro “visionaria immaginosa verità” che non perde mai di vista il mistero evocato attraverso il concreto.

Patrice Dyerval Angelini

3 commenti su “LA FENOMENOLOGIA DI RUFFILLI”

  1. Una sorprendente coerenza artistica caratterizza Paolo Ruffilli, autore corroborato dalla pratica concreta di una disciplina spirituale qual è quella poetica, nel suo nuovo libro, “Le cose del mondo” (Mondadori, Milano, 2020). Ciò sembra confermato dalle parole che lo stesso Ruffilli pone come prefazione: l’autore parla di “un progetto lontano ma rimasto sempre vivo, un progetto che risale agli ultimi anni Settanta”, nei confronti del quale ha mostrato “fede per tutto questo tempo”. Questo “progetto” è “un’idea”, anzi, una “precisa necessità”: quella “di perlustrare il concreto mondo […] in un gioco di continui rimandi e rispondenze tra io e realtà esterna attraverso la pratica del linguaggio.” Come riesce l’autore a gestire il suo accattivante gioco di rimandi e rispondenze? Attraverso poesie legate al “qui e ora” e pregne, però, di elementi che sottendono una realtà parallela, vissuta dall’autore in modo quasi sciamanico.
    La scrittura di Ruffilli, levigata con la pietra pomice di una metrica sostanzialmente tradizionale e lontana da una perniciosa afasia, si nutre di una fede laica che porta l’autore “a ragionare dell’evidente verità di cose / dall’ombra a un tratto rivelate agli occhi” (L’abbondanza). Dall’ombra, appunto. Ma cos’è quest’ombra? Per Ruffilli, in consonanza con altri poeti, è una condizione esistenziale, quasi una ragione di vita, che a volte può destabilizzare, generando però elementi artistici venati di una produttiva malinconia. Ma l’ombra è anche, per l’autore, la base che costituisce il sogno poetico, espresso attraverso la pratica linguistica per eccellenza, la Poesia. Quest’ombra-sogno è la matrice dell’universo, che Ruffilli descrive in modo poeticamente e ritmicamente raffinato, con prevalenza di musicali endecasillabi, nella lirica intitolata “Universo”: “ma l’universo ha solidi confini / e dall’eccesso piega in sé curvando / nel tunnel in salita circolare, / avvitando trascende e si contiene / a replica dell’elica infinita, / codice e radice, cassaforte della vita.”
    Cosa spetta al poeta, e quindi a Ruffilli, una volta preso atto dell’esistenza dell’ombra-sogno? Dare un nome alle cose, cercando di restituire loro una verginità brutalmente massacrata dall’abbandono di una Tradizione, comportamentale ed intellettuale, che il mondo moderno ha deciso di marginalizzare con mal celato disgusto. Ecco quindi che il Nostro si cimenta in questo atto, di capitale importanza, intitolando e descrivendo le “cose del mondo” con parole semplici e, apparentemente, trascurabili: “Anello”, “Armadio”, “Astuccio”, “Bambola”, “Barca” sono solo alcuni dei titoli che rispettano un codice descrittivo di tipo anglosassone, che si nutre di un’oggettività tipica di quella cultura. Non è casuale il fatto che Ruffilli è traduttore e curatore di classici inglesi. È evidente che, specialmente in queste poesie, Ruffilli aggiunge uno sguardo assorto e permeato di un’aura magica, laicamente misticheggiante e distante anni luce da stramberie contorte e poeticamente inefficaci.
    Ampio spazio viene lasciato, nel volume, ad una divertita e sagace analisi del corpo femminile, che trae alimento da una cultura carnevalesca legata, in questo autore, alla bella Romagna, dove cibo, affabilità e ricchezza spirituale sono un tutt’uno. È un amore, quello verso le creature femminili, che Ruffilli prospetta come un sentiero conoscitivo privilegiato e sempre concreto, completamente svincolato da una concezione esclusivamente mentale dell’oggetto del desiderio.
    L’amore, dunque, quello che dà forza alla vita, quello che fa scrivere al poeta, in “Allora”, che “nonostante smacchi e delusioni / cambi di rotta per comodo o di necessità” non bisogna rinunciare alla vita ricevuta in dono e data agli altri, in un continuo e naturale alternarsi di vicende positive e negative, di ruoli recitati e interpretati a volte senza piena convinzione, ma con una sola e costante consapevolezza: che “ciò che procede dall’amore / non è mai carneficina.”
    Marco Pavoni

  2. Alessandro Centinaro

    Questa ultima ed assai seducente raccolta poetica di Paolo Ruffilli (“Le cose del mondo”- ed. Mondadori) ha un valore antologico,pur senza essere una antologia, ma, almeno nell’ispirazione, una sublimante ricapitolazione di temi e stilemi propri dell’autore.
    Il miglior complimento che si può concepire per Paolo Ruffilli è che egli è sempre riconoscibile: uno può leggere- in forma anonima- un brano minore o meno noto di Montale (peraltro a suo tempo sincero estimatore di Paolo), e non riconoscerne l’autore; con Ruffilli ciò non avviene, perché ha come un D.N.A. inconfondibile nella perfetta fusione fra la tipica eleganza rapsodica della forma e la profondità dello sguardo introflesso ed estroflesso su ciò che è “in interiore homine” e su ciò che da esso emana gravitando come atmosfera carmatica, come “aura”: l’anima, infatti, non è solo dentro, ma promana fuori, come l’aria aleggia e veleggia gravitando fuori e sulla terra.
    Così le cose dell’uomo sono le cose del mondo, “dentro il magico reticolo del nome, ch’è contenuto del suo contenitore”, oppur come “la forma incontenibile di un contenuto”, per usare le parole dell’Autore.
    C’è, in questo libro, una perfezione di continuità di “tono” stilistico che è raro trovare in altri autori: è come se fosse un poema, o poemetto, articolato in capitoli e paragrafi,, tanto evidente è la continuità del flusso discorsivo, ideativo e ritmico.
    Secondo i luoghi comuni cui ci hanno abituati, gli unici, o pressochè unici, esemplari di poema o “poemetto” del Novecento (ed oltre) sarebbero rappresentati dalle “Elegie Duinesi” di Rilke e dalla “Waste Land” di Eliot; chi scrive ha la presunzione (ma anche l’onestà) di dire che l’unica cosa poeticamente notevole delle “Elegie” rilkiane è che “un angelo è terribile al suo inizio”, e che l’unica cosa che rimane nel cuore della “Waste Land” è che “Aprile è il più crudele dei mesi: per il resto, non si capisce perché, in entrambi i casi, si parli di poemi, in totale assenza di continuità tematica e stilistica fra le varie sezioni (la “sepoltura dei morti” è chiaramente un “di più” nella “Waste”!) ed in presenza di una evidente disorganicità del discorso, sempre in entrambi casi, con in più il difetto della prolissità quasi prosastica e della ripetitività.
    Quest’ultimo lavoro di Ruffilli è, invece, veramente un poema, o poemetto, un fiume ininterrotto di pensiero emotivo e di raffinatezza rapsodica che si legge d’un fiato, e si legge tutto, e magari si rilegge, ma sempre avendo presente la continuità poematica del “flumen” discorsivo: il che, oggi, e l’altro ieri, si può e si poteva dire di pochi.
    Alessandro Centinaro

  3. Susanna Piano

    Visto dall’occhio di un piccolo poeta come me, “Le cose del mondo” è intanto un libro densissimo, ricco e pregno di significati, profondità e stratificazioni semantiche. Un’opera così intensa da meritare più di una lettura. Ed è una sorta di libro-contenitore perché, con effetto sorpresa, gli oggetti, le cose, sono davvero dentro il libro e lo specchio, la porta, il bicchiere… se ne stanno lì come se ne starebbero dentro le nostre case. Contenitore delle cose del mondo e della vita, quindi. Pieno e traboccante.
    È stato il poeta a collocarle dentro questo contenitore. Per poterle osservare, come per guardarle da un finestrino (“Se si potesse fare come si guarda / giù dal finestrino andando in treno / la successione di cose e di persone” p.27), per scrutarle, per filosofare, per ragionarci sopra: “e chiusi in una stanza intere notti / a ragionare dell’evidente verità di cose / dall’ombra a un tratto rivelate agli occhi” (L’abbondanza p.67) o ancora per fissarle “Così, dal buio fermo, / la lastra polverosa fissa su dal fondo / a un tratto il bordo della cosa”. (Lavagna p. 123). Dentro questo mondo di cose che fanno da sfondo agli eventi della vita, si svolge senza tregua un’osservazione caparbia e ostinata che cerca insistentemente di relazionarsi con il tangibile e con il mistero, con il dubbio e “la domanda più vertiginosa”, che si pone interrogativi che rimarranno tali ma che danno indicazioni di percorso “dentro l’astrazione più concreta di cose e di figure”.
    Si percepisce uno stretto, quasi fisico rapporto tra parola e oggetto. La parola è potente, è addirittura causativa: “a chiamarle, arrivano le cose / senza poterle allontanare più dalla tua strada” (p.69) o “Il nominare chiama e sì / chiamando ecco che avvicina / invita ciò che chiama a farsi essenza / convocandolo a sé nella presenza” (p. 198). Questo legame ha altresì delle corrispondenze eliotiane/montaliane nella sua capacità di raggiungere le cose, gli oggetti, attraverso la materia verbale, lasciandone dei segni tangibili, dei correlativi (“Le persone muoiono e restano le cose / solide e impassibili nelle lore pose”) che si manifestano d’un tratto, rivelando l’esistenza e la grandezza di questa poesia.
    Susanna Piano

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