LE COSE I FATTI E IL MONDO IN RUFFILLI
Le cose del mondo (Mondadori). «Il mondo è tutto ciò che accade». E subito dopo: «Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose». Sono le prime due, celeberrime e folgoranti proposizioni del “Tractatus logico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein. Ma i fatti non sono che le relazioni tra le cose, accadono proprio in virtù del rapporto che si stabilisce tra di esse. Sono quest’ultime i fondamentali, imprescindibili tasselli della realtà e indagarle spetta a chi intenda propriamente «seguir virtute e canoscenza». Paolo Ruffilli è, da sempre, poeta delle cose. Il suo primo libro, “La quercia delle gazze”, è uscito nel 1972, perciò si contano ad oggi quasi cinquant’anni di attività spesi nel nome di una fedeltà, anzi di una dedizione encomiabile ad una poetica precisa, ad un insistente lavoro di approccio e di man mano più capillare e accurata analisi sui componenti essenziali del reale (non a caso forse il precedente libro, pubblicato nel 2014, si intitolava “Variazioni sul tema”). Le cose, quindi, considerate come “archè”, come origine e ordinamento e struttura portante del tutto, tangibili e di conseguenza, se debitamente esperite e comprese, atte ad essere dette. Certo, Ruffilli è poeta, e poeta di solida vaglia, pertanto il suo dire si nutre consapevolmente delle prerogative e del “metodo” della poesia, cioè di quelle specifiche distintive del fare in versi che, pure ben differenti per esempio dalla ricerca scientifica o filosofica, hanno tuttavia facoltà e potenzialità di inoltrarsi in territori inesplorati e di ricavarne una speciale “sapienza” (oltre che stupefazione e interrogazione senza fine). L’osservazione capillare del micro-mondo è, per Ruffilli, operazione pregiudiziale all’osservazione e alla possibile intelligenza del macro-mondo, in questo confortato dal pensiero Zen, da lui frequentato quale chiave di lettura, appunto, delle cose e del mistero della vita. Dall’esordio sopra citato il poeta ha tenuto ferma la barra, pur prendendo in esame via via nel tempo motivi e situazioni diversi. Per questo l’ultimo suo libro rappresenta un compendio efficace e importante. Ne “Le cose del mondo”, infatti, si riconoscono chiaramente, e risaltano, i caratteri, la visione complessiva, i fattori stimolanti sul cui solco per decenni si è applicato. È un testo che, nelle sue parti e nel suo intero, il poeta ha coltivato e perfezionato dentro di sé per mezzo secolo e che testimonia doviziosamente echi, interessi e suggestioni che tanto a lungo lo hanno accompagnato e “ispirato”. Giusto per tale durata, ne risulta altresì un effetto singolare di recupero della memoria, che diventa un toccante ricordare, cioè un “riporre-nel-cuore”, di viva sensibilità. E ne emergono, con straordinaria evidenza, la ferma coerenza e il sicuro talento nel “vivisezionare” le cose, come prima si diceva. “Le cose del mondo” non sono né una fredda antologia né una mera ricapitolazione dell’opera poetica di Paolo Ruffilli, bensì rappresentano una sorta di bilancio a posteriori con tutta la pregnanza e la maturità e la lucidità – di sguardo, di capacità intuitiva, di sonda, di retrospezione – che ne derivano. Un libro di compattezza esemplare, misurato sulla “consueta” cantabilità del dettato e soffuso di delicatezze nonché di una mestizia di fondo che lo rendono ancor più affabile.
L’universo poetico di Paolo Ruffilli
Conoscere la poetica di Paolo Ruffilli significa rincorrere l’uomo e il suo destino. Un diario inarrestabile di emozioni, ma anche versi di una reticenza unica che qua e là riaffiorano in tocchi di nuda umanità; versi cioè intrisi di una turbinosa e devastante analisi critica. Il poeta infatti, fin da subito, ci proietta in un visionario mondo – che di tanto in tanto esorcizza – carico di evidenti squarci allusivi, di concetti sempre più inquietanti come farsi prendere dalle irrequietudini, dalle dissolvenze, da solenni silenzi, dalle quotidiane evocazioni: tutti elementi che spaziano nella mente di ognuno di noi, nella misura stessa in cui la memoria riesce ad esternarli: moti di luce che nello scenario universale si dilatano e che il Lettore percepisce come visione che stupisce ad ogni insorgenza di epifanie ostili o perché estranee al mondo delle appartenenze. Una panoramica vasta, complessa, emotiva ed esistenziale di cui il poeta, nei punti più estremi, ne chiarifica il senso e la misura.
La poesia di Ruffilli è quindi purificazione, che vuole pure essere un insieme di dipinti e disegni che si adeguano al fluire della realtà e al moltiplicarsi delle più variegate sensazioni umane; tutti elementi che alla lunga si richiamano per confluire in un unico punto, quello della ragionevolezza. Le reiterazioni, lo stile, per esempio, sono elementi che si chiarificano appunto al chiarore del mattino; faro che fa da guida alle umane e quotidiane incertezza, alle nostre imminenze, alla nostra incapacità di concepire macrocosmo e microcosmo insieme, che fa da sponda alla mancanza di una legge capace di guidarci sull’altro capo del mondo o per farci comprendere che “Le persone muoiono e restano le cose / solide e impassibili nelle loro pose / nel loro ingombro stabile che pare / non soffrire (…) ma nel lungo andare il tempo le consuma senza strazio (…) e farne pezzi e polvere, alla fine.”
L’uomo, nonostante tutto. Sì, perché, nonostante tutto è sempre e soltanto l’uomo che alla fine necessita di strappare all’oblio tutto il bene che gli manca, tutto quello che gli sta più a cuore; ecco per cui al culmine di un percorso l’uomo cerca di acquisire l’esatto contrario di sé. In Le cose del mondo, infatti, il poeta cerca di mettere insieme tutti questi elementi, dando ad ogni verso una carica superiore, i tempi giusti per interiorizzare pensieri anche quelli apparentemente privi di significato. La parola, in un dato momento, si fa strumento, si nutre di sostanza, si carica continuamente di nuove immagini. Pennellate dopo pennellate ci si trova davanti a un affresco carico di sensibilità inespresse, carico di una gestualità e di una quotidianità dai mille volti e dai mille significati. Per una poesia senza tempo. Perché tutto accada, anche quando non ci siamo più. Come è giusto che sia.
Ottaviano De Biase
“Le cose del mondo”: un titolo provocatorio, se all’interno non si trattano temi sociali, questioni politiche, o eventi della storia. Perchè è questo che ci si aspetta dal titolo. Ma tu rovesci il termine del gioco, e spiazzi a sorpresa il lettore mettendo al centro un altro mondo, e altre cose, il mondo delle cose consuete della vita quotidiana – l’armadio, l’astuccio, il bicchiere… – note e abituali, il mondo-della-vita di husserliana memoria, Lebenswelt dato nella naturalità dell’esperire vivente.
Eppure, quello che sembra noto non lo è affatto, e il più noto diventa il più misterioso e ancora da scoprire, con nuovi significati, rimandi e trasparenze. Perchè le parole ricreano il mondo, e fanno nuove le cose abituali aprendo ad altri mondi e prospettive. Con l’immaginazione, gli affondi concettuali e simbolici, la musicalità – c’è tanta musica nella tua poetica -, il ritmo del linguaggio.
Al contrario, il più lontano dal qui ed ora, la partenza e il viaggio, sembrano rimandare sorprendentemente a un dèjà vu, a un noto consegnato nella disillusione. L’atto del partire oscilla tra volontà di voler andare, e destino di andare/chiamata imperiosa, a cui diventa impossibile sottrarsi. Il movimento è cercato e voluto, ma nella perfetta consapevolezza dei vuoti, di un sempre più in là, estenuante. Non ci sono mete, ci sono enigmi e interrogativi.
In questo circolo di partenze e ritorni, la vita e le ragioni del vivere sono tutte nella notte bianca affidata alla parola creatrice, qui la forza, lo slancio, la libertà, la vita che rinasce nonostante tutto. Talmente potente da creare mondi a partire dall’ovvio e dal già dato, in nuovi non precostituiti viaggi e movimenti.
Poesia contrassegnata da ritmo musicale di classicità e compostezza, raffinata eleganza (i concerti brandeburghesi di Bach, il n.5 forse? ) che ne costituisce la trama di fondo. Ma di nuovo con rovesci di gioco sul tavolo delle carte, poesia che sa essere anche sfrontata spudorata e spensierata, come una milonga, e come la milonga capace di allegria e giovinezza (Atlante anatomico).
Molto tenero il riferimento a tua figlia e le poesie che le hai dedicato. La immagino bambina o appena adolescente (forse una nostalgia di innocenza del mondo, o desidero di protezione dell’innocenza…)
Loretta Scarazzati
Se potessi dare un’appellativo nuovo all’ultimo lavoro poetico di Paolo Ruffilli Le cose del mondo mi piacerebbe considerarlo come un armonioso “Trattato” di grande respiro sui comportamenti umani derivanti dal loro appartenere ad una travagliata esistenza, in cui una minuziosa e arguta analisi viene poi anche estesa ad una articolata presenza di oggetti, raramente indagati poeticamente, strettamente legati all’arte o al bisogno del vivere. Trattandosi di un volume sviluppatosi in un arco temporale molto lungo offre anche una particolare visione della personalità umana e artistica dell’autore, attraversata da una profonda inquietudine e dalla esigenza di fare chiarezza e verità su qualsiasi cosa attenga all’umano procedere, onde individuarne precarietà ed esaltazioni, speranze ed illusioni, aggregazioni e solitudini. Scorrendo il libro risulta difficile al lettore non identificarsi nel complesso panorama descritto dal poeta e prendere atto di appartenere a quella categoria di umanità illustrata nel proprio quotidiano manifestarsi, non ammettere la propria fragilità sostanziale su scelte e strade intraprese e risultati disattesi. Siamo messi di fronte in gran parte del libro, ad umanissima sequenza di argomenti, azioni, sensazioni, atteggiamenti, pensieri, sentimenti, modalità del dire e del fare, verifiche e concettualità di cui scopriamo la consistenza e l’inconsistenza, la finalità e la sua contraddizione, lo scatto iniziale e la successiva decadenza.
Una vera rassegna di come viene affrontata l’esperienza esistenziale strettamente legata alla convivialità, ai rapporti interpersonali, resa preziosa grazie all’utilizzo di una parola poetica solcata sempre da una sottile emozione che lo lega alla vita e sottoposta ad un esemplare lavoro di cesellatura, incisività, essenzialità, insomma trattata a bulino, raro esempio di come si ricavare leggerezza e musicalità anche trattando materiale lirico di crude realtà ed attinente ad argomentazioni di natura psico analitica. Apre la corposa silloge la componente del viaggio, la sezione, a mio giudizio, più partecipata e vissuta in prima persona dall’autore, ed ossia quell’errare per treni, stazioni, sale di aspetto, alberghi, quel vagare per andate e ritorni, entrare nei sogni ed uscirne nella stanca routine quotidiana, ; essere insomma preda di una sostanziale solitudine, non appartenere a niente e a nessuno, sentirsi straniero tra coscienza, dubbio e delusione. Una esperienza lacerante dunque ma che ha il pregio del cambio continuo delle prospettive
condizione essenziale che alimenta la speranza , costituisce la resurrezione e di cui si nutre costantemente il sogno umano. Un’anteprima, davvero significativa questa che chiude il sipario sul movimento e ne apre altri che squarciano veli su stati d’animo, tentazioni, intenzioni, necessità e scoperte e tutto quanto attiene ad un atteggiamento umano di posa e azione nei confronti di una convivenza con il mondo ed i suoi contradditori fenomeni. Ci ritroviamo quindi con il concetto della “Seduzione”, con quello della “Contraddizione”o della “Fantasia” e ancora con la “Pretesa”, la “Resistenza”, l’ “Orrore”, il “ Successo” e molto altro in una gamma di incontri/scontri tra ragionamenti e interrogativi, approvazioni e disapprovazioni, in cui si svelano l’effimero e il miraggio con le proprie devianze e la sostanza di fondo, la morale della favola appunto. Così è anche per la “Notte bianca” terza sezione, nel suo allargarsi e dilatarsi negli orizzonti al “Pensiero”, allo “Sguardo”, al “Tempo”, all “’Universo”, alla “Gioia”, al “Lutto”, al “Cielo” e a quella Felicità che:”/ sempre si confonde con la dissolvenza stessa, / la dissomiglianza di ogni cosa” come cita in meravigliosi versi. Si tocca con mano l’intensa conoscenza della vita e di come va il mondo, dell’autore con i suoi dritti e rovesci, un poeta Ruffilli di grande esperienza, attraversato da una saggia e triste consapevolezza di un inutile esibirsi e di una estrema finitudine dell’umana presenza. Ma le sezioni che più intrigano, con grande sorpresa il lettore sono le successive “ Le cose del mondo” e “Atlante anatomico”. Ed è qui che si scatena la parola indagante, dissacrante, disincantata con qualche concessione alla fantasia di Ruffilli, che apre il suo sguardo sempre avidamente curioso, su oggetti, particolari, componenti di uso comune e quotidiano, ne analizza con minuzia utilizzi, particolarità, pregi, difetti, caricandoli di una loro personalità , con talora surreali, stupefacenti tratteggiamenti e corpose pennellate che ne danno il senso della tattilità.
Particolari come un libro, una sedia, una scarpa, un letto, una finestra , una gomma, una lavagna, e molto altro ancora si accendono e raccontano la loro avventura e a cui l’autore assegna la propria poetica finalità e verità esistenziale, il senso non banale della loro presenza. Non meno interessante il suo “Atlante anatomico” un sorvolo a tutto corpo, mi verrebbe da dire, su ciò che costituisce l’anatomia umana dai capelli, al collo, al cervello, ai denti, alle ginocchia, alle labbra alle mani, e così via entrando persino nella più profonda intimità dei testicoli e della vulva. Un terreno fertile questo per l’autore che si inoltra avidamente nelle pieghe più sensibili e scoperte dell’agire umano, su quelle parti da sempre delizia e croce ed aggiungo anche mistero da esibire, volenti o nolenti, nella estenuante ricerca della bellezza, della vanità, della seduzione ma anche oggetto di una interiore esplorazione esistenziale. Ad un poeta come Ruffilli che tanto ha cantato la sensualità nelle sue varianti non poteva di certo sfuggire questo capitolo che ha fondamentale importanza nello studio del comportamento umano. Le ultime parti del libro toccano e analizzano con notevole sensibilità la terra sterminata della parola umana, le dinamicità da scui essa scaturisce, il suo essere a turno semplice, fatale, sciolta, libera o legata nella mente, parlata o avvolta nel silenzio.
Dal suo canto si deduce un lungo vero esercizio di attento ascolto e di rivelazioni, maturato nel tempo. Ricchissima è dunque quest’ultima silloge di Paolo Ruffilli, di certo un’opera ponderosa, ma che non scade mai nella sua finissima e virtuosa elaborazione, in cui proprio la sua parola poetica si rivela più che mai l’arma vincente con la sua avvolgente e accattivante presa. Un volume che si legge agelvolmente e che entra nella vita di tutti i giorni svelandosi sorprendente manuale e aprendosi a tematiche esistenziali fondamentali con lievità e disincanto e con tutte le sapienti e ampiamente riconosciute qualità poetiche del poeta, ma restando sempre avvolto nella sua strisciante inquietudine.
Carmelo Consoli