‘LE COSE DEL MONDO’ DI RUFFILLI
Nel suo percorso poetico, Paolo Ruffilli ha praticato strade diverse, sempre confermandosi in una coerente, limpida solidità di pronuncia pur nella varietà di tematiche e argomenti. Questo libro Le cose del mondo (Mondadori) permette di seguirne il cammino per un arco di tempo pressoché quarantennale, trattandosi di un’opera unitaria composta a partire dagli anni Settanta, un ampio work in progress arricchitosi nel tempo. Un’avventura poetica ed esistenziale che prende il via con la metafora del viaggio e degli incontri che il viaggio offre, della quotidianità onirica e a volte sgradevole di chi comunque si trova «straniero tra la gente». Fino al ritorno, dal quale riparte la meditazione turbata sul senso delle cose e della vita, nelle incertezze e negli equivoci degli umani rapporti, tra vuoto, amore e violenza, mentre felicità «sempre si confonde / con la dissolvenza». Nel capitolo che dà titolo al libro, Ruffilli si muove a diretto contatto con gli oggetti di cui si popola la vita, e che si impregnano del nostro passaggio, trovando il senso non banale della loro presenza, si tratti del cappello o del bicchiere, della barca o di un diario. La sua fitta narrazione è affascinante, minuziosa, affabilissima, una sorta di insolito canzoniere dedicato a una realtà tanto essenziale nel vissuto quanto raramente indagata, come in queste pagine, con la concretezza maniacale dell’osservatore sensibile. Del poeta, appunto, che perlustra oltre la semplice superficie delle cose, e che qui prosegue con apparente orizzontalità il suo viaggio in un “atlante anatomico”, dedicandosi alla bocca o alla caviglia come al cuore o al cervello, non senza ironia delicata, producendosi nell’esercizio acuto e antiretorico di un corpo a corpo con il corpo stesso. Nella sezione conclusiva, infine, il poeta pesca nelle profondità e negli anfratti del dire, nella formidabile, paradossale e «visionaria immaginosa verità» della parola, alla quale chiede risposte, ben sapendo, nella sua saggezza, che troppi interrogativi rimarranno inesorabilmente aperti.
Editoriale
C’è una costante nelle poesie di Paolo Ruffilli Le cose del mondo (Mondadori) ed è il ritmo, incalzante, come un viaggio che inizia e un treno che parte, ma nello stesso tempo si sente un desiderio di lasciarsi andare all’infinito, all’ignoto ( “che bisogna intanto perdersi / per potersi davvero ritrovare”), come poter scendere in una stazione riconosciuta dalla stazione stessa ma non da chi arriva (“che più si va e meno si trova / e non si arriva da nessuna parte”). Oggi tutti hanno paura dell’ignoto ma non qui il poeta, che vorrebbe perdersi “partito senza meta, solo per partire / di fronte all’infinito”. E in questo ritmo e in questa metrica così regolare disposta in 9 massimo dieci versi con prevalenti endecasillabi, con il testo posizionato in basso nelle pagine, senza titolo, svelando fin dall’inizio che si tratta di un Canzoniere ma anche di un Viaggio non nell’aldilà ma nell’aldiquà, un viaggio nelle cose del mondo. E queste cose non si vedono subito ma arrivano nel prosieguo del Canzoniere e vengono “nominate” con precisione e realismo a volte crudo ma è così che si chiamano anzi vengono chiamate, come le parti più sensuali del corpo quali il seno: “La fonte universale con la sua piena identità / che eccita e che allatta l’intera umanità”: quale più vera verità di questa, come la Vulva: “la tumida ferita e il suo vischioso / inviluppare nel sugo della vita” perché la vita è lì che nasce e viene creata ma anche risveglia i sensi, eccita, fa andare il mondo verso l’origine, la bellezza, l’amore, il cuore, il fiore e Dio stesso, che scelse una donna per diventare Uomo. E anche le Cose più semplici e banali ma dimenticate dalla poesie come la Matita: “testa di ponte, presagio, traccia nera /offerta in pegno e poi seguita dal colore: / Primo segno inciso sul chiarore” o il Bicchiere: “La forma, incontenibile, di un contenuto”. Le Cose del mondo d’altronde, hanno uno scopo: servono per partire e per restare, sono sempre lì, sembrano inanimate ma in realtà vengono prese, si spostano con noi e, anche se rimangono ferme per anni nello stesso posto, la polvere le avvolge e i raggi del sole che entrano dalla finestra le illuminano sempre in modo diverso. Le prendiamo per il Viaggio non importa per quale Luogo, meglio partire senza sapere dove si arriverà. Perché “la felicità ci sfiora il tempo / senza lasciare tracce vere / e poi il ricordo, per quanto faccia, / non è capace di far rivivere il piacere”: ci sono “lacrime invisibili / nascoste agli altri e al mondo”. E le Cose in questo come intervengono? Come intervengono le Cose nella Felicità? Il viaggio continua e si sente nel Poeta un fondo di malinconia: la cruda realtà è tale che anche un tramonto è “l’ennesimo tramonto / (che) picchia sui vetri rumoroso”. Cosa che di solito non si sente da un tramonto, la più romantica delle Cose, eppure è così perchè “Di nuovo l’orizzonte, ecco, si ricrea / come mi accade sempre in questo posto. / Ma quello che si crea ad ogni costo / – chissà mai perché – poi non ci appare: / arretra e di continuo intanto si cancella”. Il Poeta è preso da un pessimismo leopardiano: le Cose e la Natura con il loro ritmo e la loro scansione, con la rima che le conduce nei Versi della vita, “forse” si cancellano mentre andiamo: “Che il mondo, allora, stia nascosto / sotto la sua ombra e il suo riflesso? / O che si lasci da se stesso a poco / a poco andare scivolando via? / O magari – ipotesi più bella – / che proprio non ci sia…”. La Rima è un altro elemento che fin dall’inizio si sente, specialmente negli ultimi tre versi di ogni strofa, c’è sempre e questo perché è fondamentale ed elemento portante non solo del ritmo del Viaggio nelle cose ma perché fa sentire ancora di più il Cuore del Poeta, il suo profondo desiderio di poter svelare il senso delle cose, di poter entrare nel più nascosto dei significati e ancora semplicemente essere Rima. E fra il Viaggio e il Vocabolario delle Cose, il dialogo tenero e intenso con la figlia: “Ma tu, papà, mi ami?” In questo dialogo ci sono dei Titoli: Al principio, Paura, Rivolta, Bugie, Il Buio, La Scuola, la Scoperta: “A un tratto l’ho capito in modo inaspettato / che non sarei più stato, io, il figlio / principe di un regno pressoché assoluto /…io, tuo padre, portato ormai a fare da misura /e segno, perfino, a te di direzione…” Le Cose del mondo si concludono ma forse no, con degli Interrogativi, e qui cambia completamente il metro. Non più la scansione del Viaggio e la nomenclatura delle Cose, con 9-10 versi in endecasillabi con le rime, bensì versi irregolari con ottonari, settenari, quinari, senari pur sempre con le rime e frequenti enjambement, a volte senza punteggiatura: l’Interrogativo rompe, sgretola: per arrivare alla risposta bisogna rendere le cose simili alla sabbia, farle passare per la Clessidra del tempo. “Per quale mai spiraglio / gola cunicolo pertugio /strappo o taglio / riaccendere il suono / perduto dall’udito, / da quale bordo mai / dell’infinito / riconquistare al gusto /all’occhio al naso al tatto, / nel cono d’ombra / nel retroscena / dentro il fondo, / l’archetipo matrice / l’anima del mondo?” Ma anche negli Interrogativi le Cose sono nominate. La luce: “È la luce che / leggera ma puntuta / cucendo la bocca / scuce gli occhi, così che la lingua / biforcuta / s’intoppa gonfia / e resta muta?” E alla fine degli Interrogativi c’è sempre inevitabilmente un punto interrogativo. La nostalgia del mare: “Che sia laggiù / la nostalgia del mare / nella sua essenza / di cosa inconquistata / compresa a stento / tra le sponde, / camaleonte / di velluto e nero, / la zona misteriosa / e non contaminata / da cui proviene / insieme con la vita / tutta la schiera / di mostri e di fantasmi / dispersa e trascinata / dalle onde?” Le cose del mondo chiamano: “Il nominare chiama e, sì, / chiamando ecco che avvicina / invita ciò che chiama a farsi essenza / convocandolo a sé nella presenza. / È la ragione che si fa linguaggio /volto a spiegare perfino il sentimento, / musica interiore che da sotto sale / e consegnandosi all’urto materiale / delle precipitose scaglie ondivaghe sonore / parla nel suo scontrarsi per domarla / con la resistenza delle cose.” C’è qualcosa nella vita, la vita stessa, che ci fa scontrare con le cose: si tratta di un vero e proprio “urto materiale”, non c’è più amore e nemmeno sentimento: le cose del mondo sono più sensibili dell’Uomo, tutto è precipitoso: non sono le immobili e metafisiche “scaglie di mare ” di Montale, sono “precipitose scaglie ondivaghe sonore”, sono qui, non nel mare del paesaggio montaliano, non è un “Osservare tra fronde il palpiatare / lontano di scaglie di mare”: le scaglie sono qui parte della vita, sono dentro di noi, noi stessi siamo scaglie e le cose resistono: sono loro, le Cose del mondo, la vera essenza che resiste a tutto, e noi possiamo così fare il nostro Viaggio fin dentro le loro essenze.
Giovanni Sato