PER I SETTANT’ANNI DI PAOLO RUFFILLI

PER I SETTANT’ANNI DI PAOLO RUFFILLI

Per i settant’anni di Paolo Ruffilli il blog di Italian Poetry propone all’attenzione ciascuno dei suoi libri di poesia attraverso la recensione di un noto critico. Nell’ordine: Piccola colazione (Garzanti, 1987) letto da Giuseppe Pontiggia, Diario di Normandia (Amadeus, 1990) letto da Vittorio Sereni, Camera oscura (Garzanti, 1992) letto da Andrea Zanzotto, La gioia e il lutto (Marsilio, 2001) letto da Luigi Baldacci, Le stanze del cielo (Marsilio, 2008) letto da Dario Fo, Affari di cuore (Einaudi, 2011) letto da Daria Galateria, Natura morta (Aragno, 2012) letto da Elisabetta Brizio. Con gli auguri di Italian Poetry, Poetry International e Lyrikline.

https://www.poetryinternational.org/pi/poet/6376/Paolo-Ruffilli/en/tile

https://www.lyrikline.org/en/poems/amore-2320#.UozqOGtd6P8

 

LA FELICITÀ DI UNA SOLUZIONE IN RUFFILLI
La parola colazione ha una storia curiosa. Nei monasteri benedettini si usava leggere le Collationes Patrum di Cassiano prima della compieta e si cominciò a chiamare collatio, per contiguità temporale, il pasto leggero che le seguiva e le rendeva probabilmente più appetibili. L’origine di questo slittamento di significato, che i linguisti chiamano metonimia, l’avevo scoperta più di vent’anni fa, leggendo un libro di Stephen Ullmann dedicato alla semantica, e da allora non l’ho più dimenticata. Mi colpiva l’associazione tra frati e cibo, tra lettura e digestione, anche se, a ripensarci, è meno singolare di quanto mi apparisse. Ma c’era, in questa metamorfosi dell’uso, una sorta di infrazione linguistica, di trasgressione lessicale, di disponibilità ambigua, che accompagna come un destino la parola anche nel suo impiego moderno. Colazione è il primo pasto della mattina, ma può essere, ci informa il Lessico Universale Italiano, la leggera refezione serale di un giorno di digiuno; può diventare un pranzo misurato di mezzogiorno, ma non le viene negata l’eventualità di essere “lauta”. I linguisti sembrano accordare con riluttanza questa estensione del significato, amanti come sono, in genere, di una dieta puristica: ma l’uso e la gola trasformano le tentazioni in diritti e del resto, come diceva Pietro Verri, se il mondo dipendesse dai grammatici scriveremmo carrozza con due erre, ma andremmo a piedi. Nel titolo di questa Piccola colazione (Garzanti, 1987) Paolo Ruffilli la parola colazione si accompagna a un aggettivo, “piccola”, che dovrebbe, circoscrivendo il significato, eliminare l’ambiguità e che invece, secondo la strategia fintamente riduttiva dell’autore, non fa che aumentarla. In italiano piccola colazione appare come un calco immaginario di petit déjeuner: in fondo è una espressione che non esiste. Che poi taluni albergatori sostituiscano la prima colazione con la piccola rientra in quelle invenzioni che trovano nell’ignoranza il terreno più fertile e, diciamo pure, provvidenziale. Ci si rammarica che la tradizione abbia una memoria intermittente, quando non malferma: ma quale mostruosità diventerebbe se ricordasse tutto? Dunque piccola colazione è un prestito allusivo, una nuova infrazione dissimulata, una trasgressione accattivante e sorniona perfettamente in linea con i sei poemetti che formano la raccolta. Io credo nell’enigma trasparente dei titoli, quando, come nel caso di Ruffilli, siano il compimento di un lavoro di anni e suggellino la maturità espressiva di un’opera. E infatti questo mondo poetico è gremito di piccole infrazioni e trasgressioni, che rientrano apparentemente nella norma e invece minano il significato e i fondamenti. Le prime infrazioni sessuali di Malaria, che scoprono l’altro se stesso nello specchio, non sono tanto l’iniziazione, trepidante e goffa, all’autoerotismo – come se l’erotismo potesse fare a meno del prefisso – quanto le prime infrazioni linguistiche delle parolacce, sfida spericolata alla autorità (“Intanto, dappertutto/ Dio ti vede”). E le prime trasgressioni coniugali di Fu vera gloria?, compiute nel luogo più sicuro – in casa – portano, più che all’adulterio, a un diventare adulto, ovvero a crescere, secondo l’etimologia della parola. Non la crescita di cui si favoleggia nelle interviste – non si fa che crescere, che cosa faremo da grandi? – ma quella della propria controfigura, sempre più accorta e elusiva: “Riservato e un po’ introverso/ inappuntabile, a vederlo,/ ossequiente di ogni autorità./ Lui che risponde serio:/ “Ma si figuri, per carità”./ Elegante, sì, e gentile/ molto discreto sempre/ accolto ovunque con favore./ Sia pure ma… lontano/ fuori scena, lui si sente,/ neppure poi in agguato/ e più in difesa, quasi/ del tutto assente”. Per amore o per forza prefigura, già nel titolo, il tipo di alternative che la passione concede all’amante: e i dialoghetti che interrompono, con inserzioni di iperrealismo, la convenzione degli sfondi piccolo-borghesi ricompongono, più che lacerare, quel tessuto di menzogne con cui la sincerità cerca di esprimersi. L’assedio di Costantinopoli introduce le distorsioni ottiche di un cannocchiale alla rovescia, avvicinando la realtà solo per rimpicciolire, attraverso un confronto con la storia, le turbe collettive. E Prodotti notevoli introduce a quel mondo di litanie superstiziose che è diventata la scuola. Né manca, tra quinte fatiscenti e fondali di polvere, l’invocazione al padre, liturgia domestica che non si sa se propiziatoria o esecratoria: “Padre potente/ arbitrio comando/ signore che prende/ che regge le fila/ che muove e sostiene/ dominio e licenza./ Padre che è assente/ sole lontano/ ignoto mestiere/ enigma che incalza/ diverso e straniero/ limine termine fine./ Padre splendente/ pensato e sognato/ tenuto soltanto per mano/ guerriero tornato/ per poco disposto a restare/ giocare parlare una volta/ babbo papà”. Ma All’infuori del corpo, che impone alla persona amata riti rassicuranti, svela crepe più sinistre e temibili: “è la cancellazione/ progressiva delle/ presenze care e note,/ il conto che comincia/ a non tornare. Il/ margine sempre più/ sottile, man mano/ che si fanno falle/ e vuoti tra le file”. Per costruire questo romanzo di formazione autoironico questa commedia in sei atti Ruffilli ricorre a metri tra Metastasio e Gozzano, ad ariette di una musicalità incalzante e insieme dimessa, che scandiscono i punti nodali del processo di maturazione: il culmine, lo sappiamo, è la rassegnazione all’evidenza, Che in questo caso è “Necessità di presidiare/ un fianco, con la/ conseguenza di/ tenere senza essere/ disposti per intero/ ad aderire. E, poi,/ il peso scettico/ di fronte all’evidenza/ che ti assale, che/ comunque e sempre/ tutto sia destinato/ a finir male”. E i versi che chiudono la raccolta chiudono anche l’accesso a ogni alibi (altrove) consolatorio: “Eppure, intanto,/ arresi all’evidenza/ di andare navigando/ alla deriva”. Rapido, lieve, ironico Ruffilli ha una grazia compositiva che sa fondere in sequenze unitarie dialoghi, racconto, immagini. Eppure, grazie alla orchestrazione dei ritmi, alla variazione dei toni, ai cambiamenti di andatura, le sequenze rivelano una natura musicale, una trasparenza lirica. E proprio attraverso la convergenza delle scelte espressive Ruffilli offre al problema dei generi non una nuova incognita, ma la felicità di una soluzione.

Giuseppe Pontiggia

Prefazione

 

IL SOFFIO DEL DIARIO DI RUFFILLI
Leggendo le poesie di Paolo Ruffilli, mi è sempre sembrato di cogliervi, al fondo, la lezione di Ungaretti. E non mi riferisco tanto alla scansione ungarettiana come istanza di sillabazione fonica, che mi segnalava l’amico Filippo Maria Pontani inviandomi i primi versi di Ruffilli, quanto a quel rapporto tra cercare e trovare dentro il quale si muove l’insieme dell’opera ungarettiana. Con questo voglio dire che mi è stato subito chiaro, fin dall’inizio (da quelle prime poesie apparentemente stilizzate), il tipo di coincidenza che mi portava a leggerle con adesione: la “parola trovata”, appunto, e, insieme, “la zona del concreto, dell’immediatamente identificabile”, come l’ha bene definita Giovanni Giudici nella presentazione del poemetto di Ruffilli, Prodotti notevoli, sull’ “Almanacco dello Specchio” mondadoriano n.9. E proprio questo incontro della parola trovata e dell’immediato concreto, che è la cifra della poesia di Ruffilli, è il senso vorrei dire attestato in evidenza dalla serie del Diario di Normandia (Amadeus, 1992). L’ossessione dei minimi accadimenti, dei luoghi e delle circostanze, salvata dal progetto di un diario, che testimonia una vicenda al di là delle apparenze e delle abitudini; e la sua dinamica, consegnata a una scansione breve, dal timbro lieve, frutto del più raffinato artificio. In un soffio che, tra una battuta e l’altra, traduce la perplessità in distacco. Proprio come già al suo esordio, anche se in forme allora un po’ più secche; in quella Quercia delle gazze, che io continuo a considerare il passato poetico per molti aspetti straordinario di Ruffilli e le radici vere del suo lavoro presente.

Vittorio Sereni
Musa 1983

 

A PROPOSITO DI “CAMERA OSCURA” DI RUFFILLI
La foto si pone come un black-out rispetto alla nostra misurazione del tempo. Peggio, essa costituisce una sfasatura rispetto a quel tessuto di convenzioni dentro le quali il tempo semplicemente vissuto viene poi razionalizzato, reso “esplicito”, affidato a una macchina che lo misura. La foto disturba e mette in stato di choc il modo stesso che noi abbiamo di percepire il tempo, quello che consideriamo il flusso degli eventi naturali. Ora proprio questo spiazzamento all’interno del nostro modo di sentire il tempo è il movimento che si pone in questi testi di Ruffilli, in Camera oscura (Garzanti Editore), tra la trascrizione dell’istantanea e il diffondersi del commento. Abbiamo nella foto, da una parte, un tempo di tipo assolutamente puntiforme e, dall’altra, un tempo più “diffuso”, alonato e armonizzato nella circolarità in cui si colgono tutti e tre i momenti, passato, presente e futuro. Lo scontro di questi due tempi, sulla pagina, crea il paradosso dell’attimo: sia nella direzione della presenza che si nega nel suo porsi, quale annichilimento in cui l’attimo nel suo stesso apparire già si distrugge, sia anche nella direzione del “punto perenne”, una specie di falsa eternità dell’attimo allo stato puro. La bravura di Ruffilli sta nel non chiudere il circuito; nel lasciare aperte, appunto, le due direzioni di cui si diceva. Con l’effetto di uno spaesamento, tra perplessità e sconcerto, che è pur sempre il quoziente massimo della poesia. In queste pagine la parola, da una parte ridotta a mimesi dell’afasia, dall’altra è tesa a ripristinare le proprie ragioni, anzi “una” ragione, e a cogliere il mondo e i rapporti interumani. E c’è una presenza continuamente ripullulante di “essenze” (mentali e spaziali, cromatiche e foniche) in un collage corrosivo con “fatti”, “cose” e “persone”. Si genera da ciò un’energia coinvolgente dentro questa ricognizione di gesti, atteggiamenti, pensieri dell’io e delle molte presenze individuali, sempre marcate affettivamente, che lo attorniano. L’altro diventa presente nei molti altri, si riassume come fatto di etica, un’etica perplessa eppure “instante”, e alla fine implacabile. Sommessa parsimonia e severità presiedono all’operazione. Ne deriva un tessuto espressivo che sceglie la linea “bassa”, ma che è fratto e sospeso e ben altro che assestato all’univocità, ricco di una sua del tutto originale tensione immaginifica.

Andrea Zanzotto
Terzo Programma RadioRai, 1992

 

RUFFILLI MUSICISTA
L’idea di promuovere il varo del nuovo libro di Paolo Ruffilli La gioia e il lutto (Marsilio, 2001) mi riempie non solo di piacere, ma di orgoglio; perché ho seguito tutte le fasi della elaborazione del testo, le successive stesure fino alla versione definitiva che troviamo stampata in queste pagine. E, da testimone del lungo lavoro dell’autore, devo confessare prima di tutto a me stesso l’insieme di interesse e di stupore che mi ha accompagnato negli anni seguendo la composizione di questo La gioia e il lutto. Sì, l’interesse coinvolgente per le tematiche della morte e del morire, della sofferenza e del dolore, dell’ottica deformata secondo la quale i vivi osservano e accompagnano chi muore; e lo stupore, intanto, per il modo fresco e originale che Ruffilli teneva nell’affrontare argomenti apparentemente così intrattabili (e improponibili) per la loro condizione usurata e banalizzata dalla pubblicistica corrente e corriva, dall’approssimativa pratica dei nostri tempi anche nella stessa scrittura creativa in versi o in prosa. Alla iniziale proposta della prima stesura di La gioia e il lutto da parte dell’autore, guardavo le pagine dattiloscritte con scetticismo prima di cominciare a sfogliarle, pur essendo uno dei “lettori di confronto” di Ruffilli per i suoi testi di poesia che mi ha sempre sottoposto prima della pubblicazione. Il poema mi ha subito preso: non mi aspettavo questa intensità e questa verità. Odio il genere “compianto” o “lamento”, ma La gioia e il lutto è tutt’altra cosa. è un entrare nelle ragioni della morte, fino a elaborarla, fino a lodarla (nell’ultima parte del testo). Quello di Ruffilli è un poema di speranza anche senza essere consolatorio: proprio perché non è consolatorio. C’è un modo di essere anche senza vivere. Io, ateo totale, ho apprezzato molto il significato religioso di questi versi, confermandomi nel sospetto che l’ateismo sia la condizione necessaria per la vita religiosa. Da un punto di vista critico, la prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo dice quasi tutto e c’è poco da aggiungere. Concordo sulla natura sincopata di questa partitura antimelodica. Lo sciorinarsi di questi versicoli mi convince: sono come il sottofondo musicale di una preghiera, qualcosa che non fa resistenza, che evita le insopportabili esibizioni dell’espressionismo. La partitura musicale è, del resto, la chiave per interpretare la poesia di Ruffilli. La sua riconosciuta “leggerezza” è l’effetto e la virtù di una misura appunto musicale che consente all’autore qualsiasi scelta proprio perché per via di musica ogni sua scelta si traduce immediatamente in una soluzione. è la musica che consente a Ruffilli di dar voce felicemente a qualsiasi tema e argomento di cui voglia parlare, anche il più ostico e apparentemente impronunciabile. è la musica che consente dunque di pronunciare le cose più ardue, rendendole semplici e coinvolgenti. Il poeta Ruffilli è un grande musicista e trascina nella sua musica sempre le cose che contano, parlando insieme al cuore e alla testa. Quello che soprattutto mi interessa sottolineare in conclusione è che non mi accadeva da molto tempo di leggere una poesia così emozionante, così forte e angosciosa. Il libro di Ruffilli è di quelli che non ci lasciano tranquilli, anzi vengono a incunearsi nella nostra mancanza di tranquillità per restituirci paradossalmente slancio vitale. Bellissimo libro.

Luigi Baldacci

Poetry Online 2001

 

VENA LIRICA ED ENERGIA CIVILE IN RUFFILLI

Ad occuparsi, in poesia, di carcere e carcerati non sono in molti e, da noi in Italia, nessuno prima e con la forza espressiva di Paolo Ruffilli nel libro Le stanze del cielo (Marsilio Editore). Ruffilli è un poeta di profonda liricità, ma ha sempre anche una sua vena civile, che gli risulta costituzionalmente irrinunciabile, nella sua pur spiccata individualità, come specchio del vivere in un paese e in una società, e bene lo sottolinea Alfredo Giuliani nell’ampia prefazione al volume. Le stanze del cielo parlano così di un problema sociale, ma è l’io che riflettendo si interroga liricamente su una condizione drammatica come quella carceraria italiana, sotto gli occhi di tutti perché disattende, con responsabilità politiche evidenti, le più elementari regole di civiltà violando i diritti dell’uomo. Non è un caso che Le stanze del cielo abbiano ottenuto il premio di poesia civile più importante in Italia, a Modena, della cui giuria fa parte anche mia moglie Franca. E, del libro di Ruffilli, abbiamo parlato insieme quando lei collaborava alla stesura della motivazione. È sembrato a entrambi che la freschezza di immagini e di situazioni giocasse un ruolo decisivo nella rappresentazione lirica di una condizione che, se è esperienza di vita del carcerato, non lo è nella quotidianità di Ruffilli. Ma c’è qui da prendere atto, come si diceva con Franca, che le antenne del poeta sono talmente sensibili da rappresentare dal di dentro il groviglio di sentimenti e di emozioni, di bene e di male, di colpa e di rimorso, di speranza e di disperazione, di fede e di cinismo, che riempie ogni prigione. La valenza civile di queste Stanze del cielo è tanto più forte quanto meno se ne preoccupa Ruffilli, che parla con una dolcezza pungente dei carcerati, così come dei tossicodipendenti nella seconda parte del libro, senza fingere che non ci sia il male, ma senza cancellare quei palpiti di bene che ancora sopravvivono in chi ha sbagliato e sbaglia e compie gli atti anche più violenti e ignobili. Come sia riuscito a Ruffilli di rappresentare nel segno della delicatezza situazioni come quelle che riempiono le pagine del libro, rientra nel mistero sorprendente della poesia oltre che nell’inequivocabile bravura del poeta.

Dario Fo

RadioRai 2008

 

LO STADIO SELVAGGIO DELLA PAROLA IN RUFFILLI

L’orgasmo, ha scritto in tempi andati Paolo Ruffilli citando Pascal, è come uno starnuto. Così si era messo senza tergiversazioni dalla parte dell’ironia. E scantonava dal tema erotico con il suo metronomo cantante e irrisorio, distraendosi con gli sfondi e le situazioni di contorno (il cattivo gusto dell’arredamento della camera da letto, la luce fioca e triste di una lampada del comodino, il crepitare del parquet al movimento degli amanti clandestini, l’incepparsi della lampo…) o dissolvendo l’altro in “oggetto delirato” dell’amore, personaggio assente o “figurato”, immaginato come non è. In Affari di cuore  (Einaudi) per la prima volta Ruffilli dilata il momento in cui “l’eterna guerra di posizione” degli amanti diventa battaglia aperta: “Sono tornato / per morderti e graffiarti”, “mi ami al punto di ingoiarmi”… a mordere, succhiare e digerire il corpo dell’altra; non tanto il “corpo amato” dell’immaginario, ma un corpo “vero e proprio” fatto di pelle e di carne, di umori e secrezioni. Il tema investe il ritmo di Ruffilli; non i contenuti, perché resiste in realtà l’impianto narrativo delle sue trascorse educazioni sentimentali (“e ti lamenti / … / che ti offro / i frutti della testa / ma che alla fine / non ti dono il cuore”): la totalità è solo “lo stato da me presunto / beato per intero”. Il furore di lei è alla fine ingannevole: “E via, confessa / che nell’amare me / ami te stessa”. Ma, a stravolgere la musicalità irridente di Piccola colazione, o le folate ritmiche del Diario di Normandia, qui soccorrono la violenza dello scontro suoni più netti e duri (“risputarmi fuori / munto e triturato”, “vuoi che ti prenda / e, più, / che ti violenti”, “siamo squartati / … / e nello squartamento…”), e rime interne e assonanze più aspre e arrotate. È come se l’amore carnale risultasse a Ruffilli incoercibile all’urbanità di sorvegliate filastrocche gonfie di pensiero, ed esplodesse infine una crudezza primitiva, uno stadio selvaggio della parola. Niente idealizzazioni e niente donne dello schermo: il soggetto ama il suo oggetto e non l’amore (si veda, per l’appunto, la poesia Furore), incontra la sua donna “reale”, con i suoi limiti e i suoi difetti, ben sapendo di averne lui stesso altrettanti. La contraddizione non solo viene accettata, ma è vissuta fino in fondo come risorsa impareggiabile della vita. E l’amore conosce la violenza e la crudeltà, sì, però anche le pieghe più tenere che resistono nello slancio passionale (“Respira piano, / lasciati entrare / poco alla volta / dentro di me…”, “…dentro il sorriso / che il sogno / ti ha lasciato. / È la gioia dell’amante / nell’amato”,  …ma non volevo spegnerlo / beato, restando / a cuocermi nel forno”), fino a registrarne la coscienza: “Non avevo mai provato / in vita mia / così tanta tenerezza / dentro la passione”). In un rispetto dell’altra che resiste anche dentro il riconoscimento dei torti subiti e in un’esperienza dell’amore che ignora finalmente la gelosia. Nel suo concedersi all’uso della norma, Ruffilli è altamente trasgressivo e riesce a dire, appunto normalmente, le cose più indicibili senza mai sottrarre dignità alle persone (si vedano, ad esempio massimo, poesie come Addosso, Pensiero, Atto estremo, Sorpresa, Istigazione…). Solo le rime con il loro solfeggio leggero tornano a suggerire una possibile, risorgente ironia e la distanza, portata non dalla sazietà, ma dall’implacabile intelletto. Tutto diventa musica e proprio per questo si riesce a pronunciare l’indicibile. Quella lieve musica dal ritmo sincopato, fatta anche o perfino di cocci e vetri rotti. Nel genere forse più rischioso, letterariamente parlando, Ruffilli vince la sua sfida in virtù di quelle qualità che già gli riconosceva nel 1977 Montale, indicandolo come solitario e originale nel suo percorso sghembo rispetto ai poeti del nostro Novecento, all’insegna del non dire proprio per esprimere di più: “Il modo di Ruffilli si affida a una specie di galleggiamento di vescicole, piccole bolle che guadagnano la superficie salendo in verticale su dal fondo. E queste bolle, nel loro minimo ingombro, nella loro rarefatta consistenza, riescono a rispecchiare la realtà nella sua interezza e complessità.” Frammenti di un insieme alluso e poi, in virtù della poesia, di colpo ricomposto in tutta la nettezza della sua sorprendente rivelazione, per immagini capaci di rendere il discorso dell’amore non solo possibile, ma straordinariamente nuovo e vincente anche in letteratura.

Daria Galateria

L’Immaginazione 2012

 

“NATURA MORTA” DI RUFFILLI

Per Paolo Ruffilli poesia è inquisizione, ricerca di trame profonde e impensate attraverso una immaginazione che trasvaluti i canoni romantici del termine: Natura morta (Aragno Editore). Penetrare nell’immagine, trafiggere e valicare l’evidenza, immaginare… Aver di mira la saturazione, assumere l’oscurità che alla luce intrinsecamente compete, invenire la verità – ha detto il poeta – «del retroscena», vincolandola allo strato della scena. Non siamo di fronte a una forma di irrazionalizzazione della realtà: effratto il limes dell’evidenza – cioè dell’erronea cognizione – il principio di trasfigurazione immaginifica fa riapparire nella sua pregnante immediatezza ciò che di quello che denominiamo «realtà» permarrebbe inaccesso a ogni visione superficiale e pregiudizialmente difettosa. È solo in virtù di una «finzione» avente finalità conoscitive che la parola «si stacca dal groviglio», sia del mormorio indistinto, sia del nodo occasionato dall’afflusso dei referti del sogno, e con l’abolizione di quanto vi è di accessorio essa è abilitata a nominare, vale a dire a presentificare, «il corpo dell’ombra». Il momento di illuminazione accade «di colpo», in altri luoghi il poeta dice «all’improvviso», e coglie di sorpresa, ma il «flash inaspettato» è destinato a perdurare fuori della sfera dell’arte? (Si stacca la parola: «Ecco che di colpo / riesco a dare / corpo all’ombra, / si stacca la parola / dal groviglio / e dà forma al fantasma / figlio del sogno / che si sveglia / e respira / il respiro della vita / con il suo peso / e con la meraviglia / che il carico deforma / e che potenzia / mentre lo assottiglia»). «Si stacca la parola», «di colpo» elide l’interdizione delle trame dell’apparenza. L’atto semantico si ha solo in seguito a un incontro incidentale e insieme strenuamente ambito. Se l’immaginazione – quella produttiva cui si rimette la scienza –, volontariamente esercitata, costituisce la costante metodica ruffilliana, casuale è l’occasione rivelatrice del senso «del retroscena». La madeleine in Ruffilli è ricercata, voluta, e si complica per il carattere di sfocatura della traccia, dell’istante rivelativo ma fuggevole che la stessa fotografia si illude di trattenere. Va a interferire con l’intangibilità e l’impermanenza di fragili e potenti dettagli indicatori dell’invisibile, con immagini riflesse o date in filigrana. Con rifrazioni di ombre che localizzano l’imminenza di una pienezza colta nell’istante del suo sfarsi. E soprattutto, tali dettagli (i «segni», i «dati» trattenuti di Camera oscura) non attengono unicamente al ritrovamento del tempo, o alla verità del «tempo ritrovato»: il frammento di passato è irreperibile anche perché frammisto al desiderio che inibisce ogni trascrizione che aspiri a restituirne l’originale. Se i segni sono, come sono, in grado di illuminare un’intera vita o soltanto frazioni della vita (anche in virtù di quella nozione di distanza che in Ruffilli si flette in due modi: la distanza da noi è altamente retrospettivante, viene detto nel Diario; ma «distanza» designa al contempo l’inadeguatezza dei nostri strumenti conoscitivi, per cui guardiamo le cose dall’esterno lasciandoci sfuggire particolari essenziali non immediatamente percepibili), paiono comunque prossimi alla rarefazione perché essi stessi divenienti. A cosa afferisce il reperto dell’immaginazione? O detto altrimenti: cosa implica «dare corpo all’ombra»? Nel dittico vuoto-pieno, o concavo-convesso, il tramite per colmare l’opacità è l’atto del nominare, il configurare, l’invenire una forma che comunque trova l’opposizione delle cose: per il loro statuto duale e per lo spessore dell’evidenza che le alona. La parola in Ruffilli ha sempre sopravanzato la realtà per la sua idoneità a tradurre il senso dell’esistenza. Avvertita come un «a priori», un «eccitante» – ma senza ricadute nell’estetismo – è lo strumento tramite cui oggettivare lo sguardo umano indagatore nelle stratificazioni dell’apparente. Se da un lato è piena di assenza nella misura in cui si pone come ricettività al senso, anch’essa vuoto da occupare, dall’altro, e perciò stesso, la parola poetica costituisce qui l’elemento di differenziazione: dal nebuloso profondo ai confini con l’incognito, dal mormorio indistinto che prevarica la luce implicata nell’ombra, dallo status vaghissimo e affastellato istituito dai fantasmi del sogno in vista di una loro identificazione. Del resto, è dai tempi di Quattro quarti di luna (1973) che quella del linguaggio poetico – del «quale linguaggio per cercare» in Natura morta – viene sentita da Ruffilli come la questione assolutamente prioritaria, perlomeno in termini di insufficienza di un codice scevro di sostanza vivente:  «Conosco le parole più squadrate, / battute a fuoco lento / contro muri spessi di cultura, / e discorsi di logica / incatenati all’astrazione, / ma non persuadono più / neppure un grumo del mio corpo / fradicio di giovinezza». Ora, è evidente che qui Ruffilli deprivi di essenza non solo l’astrazione nell’accezione di arbitraria costruzione del pensiero o di un fantasticare utopico, quanto anzitutto nell’accezione più propria di tener idealmente distinte proprietà parziali di un oggetto, dell’enfatizzare, in altre parole, una delle componenti di una nozione prescindendo dalle altre. Tuttavia, per Ruffilli l’uomo ha sempre istintivamente praticato l’astrazione come meccanismo di difesa nei confronti di una natura soverchiatrice, si legge negli «Appunti per una ipotesi di poetica» che chiudono Natura morta: l’utilizzo di simboli sorge dall’esigenza umana di «ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». E se nella sezione conclusiva di quest’opera (dove la riflessione si sposta al corpo vivente, al di qua tuttavia di qualsivoglia seduzione panica, dal momento che l’uomo, in virtù delle sue facoltà pensanti, resta separato dal resto dell’esistente pur condividendone la destinazione) si assiste all’inveramento di cognizioni astratte nella concretezza dell’esperienza è anzitutto perché l’alfabeto ruffilliano ambisce ad assolvere a questa funzione là dove reale, e contraddittoriamente unitario, è il fondale nel quale l’immaginazione tende fattivamente a scandagliare. Dare corpo all’ombra non ha quindi più di tanto a che fare con istanze memoriali ma consiste eminentemente nell’accordare spaziosità alla vacuità. Sottilmente invertendo la linea del percorso astraente che mira alla parzializzazione dell’oggetto, ciò che è individuale contiene la totalità ed è universalizzabile. Il vuoto è il presupposto dell’esistente, il contenitore che attende il suo contenuto. Il senso è allora un nostro artefatto? Si potrebbe replicare sia affermativamente che negativamente. È un artefatto umano perché è l’esito di una indagine condotta secondo i paradigmi della immaginazione. Non lo è perché è la necessità fisica, o di natura, a dominare l’esistenza anche là dove sembrerebbe regnare il caso. «Il caso è un nome / della necessità», abbiamo letto in Natura morta. «Still life» in lingua inglese, dove «still» traduce «inanimata», «immobile», «calma», «silenziosa»: perché Ruffilli ha dato un titolo allusivo a un genere pittorico che rimanda all’immobilità anziché a quella metamorfosi che sembrerebbe preponderare nella sua opera? Forse perché le fasi sincrone della dissoluzione e della generazione si offrono a una contemplazione istantanea? O per il fatto che il valore aggettivale di «calma» e «tranquilla» si accorda con la sensazione di quiete (definita «il passo della vita», «la regola del mondo») restituita da una voce narrante unitonale e quasi spersonalizzata nella sua pensosità, che perlopiù si limita a osservare, definendole, le vicende alterne della materia, e dell’uomo quale suo riflesso in una dimensione pensante? Non convince – perlomeno sembra non esaurire le intenzioni del poeta – l’idea di voler catturare il lato che delle cose resiste all’obsolescenza rispetto a quello che deperisce e viene a termine. Ma forse c’è il riferimento a una permanenza diversa, non unilinearmente configurata, come in Chardin, in virtù di deviazioni di traiettorie luminose che non precludono il particolare minimo, infinitesimo e significativo; per la condizione, inoltre, di una esistenza procrastinata (quello stesso «galleggiamento», quell’abbandonarsi alla sospensione che abbiamo visto marcare estensivamente l’ultimo romanzo di Ruffilli) e, al contempo, per la pienezza, totalità e perfezione, per il sovrano margine di autonomia di cui viene fruire – «di colpo», o «all’improvviso» – ogni singolo elemento compositivo. Ovvero, viene da pensare a certe nature morte primonovecentesche, in cui tutto appare mobile, corpularistico, animato, mutevole, come vi si fosse instillata una vibrazione che si irradia a tutta la superficie pittorica, nella quale il corteo di oggetti che vi sono inclusi, e che dovrebbero costituire il centro di interesse, appare decentrato e posa su un piano dato per approssimazione, e che deborda finendo per partecipare della stessa sostanza dello sfondo, così mimando la contestualità del diverso. O ancora, come sembra suggerire Ruffilli nelle note sulla sua poetica, la rappresentazione artificiale dà il nome a quella che potrebbe essere l’originaria. Nella natura morta nulla è disposto casualmente: ogni singola entità entra in relazione con il resto, e in questa prospettiva essa potrebbe funzionare da parafrasi all’enigma insito nell’ordine necessario. Ma è più probabile che Ruffilli faccia; totalmente astrazione dall’arte figurativa, e che il sintagma «natura morta» venga assunto a siglare una antitesi – la mobile immobilità, l’idea del movimento rappresentato attraverso figure immobili, e perciò stesso reso eterno – che miri alla pronuncia di una realtà in difetto di nome, vale a dire la continuità temporale del «durare anche nell’assenza // per la permanenza del principio» (e gli esempi in tal senso si disseminano nell’opera). Ruffilli stesso avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a durare». Vi risuona una remota eco ortisiana (lettera del 13 maggio): «la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce». «Peso» e «meraviglia» della vita – in Si stacca la parola – sono ingredienti contrari che condividono delle caratteristiche, l’uno è il prodotto dell’altro, sono concomitanti, causale è il nesso della loro reciprocità. Il «carico» dell’esperienza li «deforma», perché l’esistente è soggetto a mutamento, alla liquefazione cui segue una ricreazione: esso è «gioia» e «lutto», vita che si rigenera dal vacuum che presuppone, esistenza conferita qui da una sostanza verbale che si dissimila dall’indifferenziato e dal suo statuto di intermittenza («fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cadendo a fondo», diceva Ruffilli in Affari di cuore), performando, e fissando «il nome della cosa / immaginato» perlomeno sulla pagina scritta. Rinvenuta per dare nome e «solidi confini» all’essere – e al pensiero che vi si riferisca –, la parola poetica non gli somiglia nella misura in cui l’esistente costantemente trasmuta. Tuttavia, specularmente, la parola di Ruffilli, benché limpida e circoscrivente, leggera e pregna, muta di frequente migrando insieme a singoli versi o a intere strofe da un’opera all’altra, divenendo anch’essa forma mutevole e reattiva in assetti nel frattempo profondamente evoluti. Stilema che adombra una mimesi anche sotto il profilo testuale di uno stato delle cose: orizzonte aperto che suppone che l’inchiesta tesa alla adeguata immagine non sia mai finita. La metamorfosi effetto della contraddizione implica che il «carico» empirico incrementi e contemporaneamente sottragga o deprivi di qualcosa (sebbene l’atto dell’«assottigliare» istituisca in linea di principio un accrescimento di carattere qualitativo, nella misura in cui essenzializza attraverso l’esclusione), senza che si verifichi alcuno scontro dialettico, il «respiro della vita» («È / il moto, sì, che / mette in relazione / con le cose e… fa / presenti le distanti / e le vicine subito / vacanti», in Piccola colazione), attraverso quella «operazione fondamentale di riconoscere ed eludere» che Ferruccio Ulivi tempestivamente indicava come istanza di Ruffilli fin da Quattro quarti di luna. Cogliere recto e verso di ogni cosa, che mai è data unilateralmente e irreversibilmente: questa confluenza di due in uno è l’esser dato che viene reso da Ruffilli sul filo sottile di un ossimoro esteso che incorpora una opposizione senza conflitti. Vale a dire, al di là dei canoni della logica, sugli esseri e sui fenomeni domina il «principio di contraddizione», ovvero domina la contraddizione insita nell’unità. Nella prospettiva della coniunctio oppositorum, «col sogno dell’accordo / in perfezione» (ancora in Piccola colazione), è dato addomesticare la resistenza della realtà che si agita e «respira» al di sotto dell’evidenza.

Elisabetta Brizio

Literary.it

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