LA DESTITUZIONE DELL’IO IN SACHA PIERSANTI
Interessante è fuori di dubbio la raccolta poetica L’uomo è verticale (Empiria) di Sacha Piersanti e per due ovvi motivi – che in teoria, all’occhio comune possono apparire banali, ma agli addetti alla poesia no: per prima cosa riguardo la questione sempre aperta e a mio avviso mai risolta del post-ontologico, ossia di ciò che avviene dopo il periodo del trionfo dell’io- adesso tramontato, ecco perché post-ontologico; il secondo motivo è perché ci troviamo davanti a un poeta. Certo uno che scrive poesie non può che essere un poeta, direste, sì… ma un poeta oggi per essere definito tale deve subire il trauma del post-ontologico, di ciò che è avvenuto dopo l’età dell’industriale. A mio avviso questi due elementi fanno della raccolta di Piersanti un’ottima prova di ciò che viviamo e sentiamo, drammaticamente estroversiamo nell’età a noi corrente. Nei versi del poeta quindi sentiamo la destituzione dell’io, una brusca caduta che costituisce la struttura del suo pensiero e dei versi, la cui colonna portante, il plinto che regge l’insieme delle cose, pare essere quel senso di rimorso. Il concetto stesso di rimorso – che può avere un’accezione antica o comunque evocativa – è assai determinante alla lente del lettore di poesia o del critico. L’impianto post-ontologico è dunque sostituito (intendo la caduta dell’io) da quel senso di rimorso per la tragedia avvenuta – si intende un dramma storico, che il poeta sente suo, come se certi atti li avesse commessi lui direttamente. Il rimorso quindi sostituisce l’io e la cosa inedita, ma si potrebbe dire laconica, è che non appartiene a una sola persona (cioè al poeta) ma a un noi: cioè a una collettività, un senso d’insieme altro. In questo giro di vite emerge anche il rinnovo come una voluta mancata restaurazione dello stile classico e lo si ha con l’uso della misura e dei versi e di certe forme di poesia legate a una stagione storica della letteratura: ossia l’uso frequente del poemetto. Il poemetto che in Italia ha avuto un ruolo suo, come figlio minore, anche se tanto minore non è, del poema; ossia il legame con il sentire il sociale e il civile e da qui a cantarlo. Il poemetto è infatti utilizzato dal Pascoli – grazie alla sua riforma quasi scientifica – dal Pasolini – il cantore di Roma e non il lirico giovinetto friulano – dal Pagliarani, dal Bertolucci, dal Volponi. Tutti poeti civili. Il poemetto in Piersanti sembra giustificare due ragioni: la prima relativa a quel senso di rimorso di cui sopra – e non poteva scegliere genere migliore. In secondo luogo, ma non per importanza, per un aspetto tipico del drammaturgo. Non è un caso che il poemetto è un genere drammatico per eccellenza, figlio minore o comunque discendente dell’epica e del poema, come non è un caso che l’autore della raccolta sia anche un regista teatrale. E la lezione teatrale è presente in tutti i suoi versi. Pare infatti che quasi Piersanti scriva i versi con il corpo e con la mimica, con un po’ di cipria e a sipario aperto. In altre parole, si tratta di una raccolta fortemente anti-lirica in senso buono, mentre invece si tratta di un romanzo del dramma e della vertigine – la poesia diceva Montale è un viaggio verticale – che colpisce l’individuo dopo la tragedia. Dopo lo scotto, dopo il dramma, dopo il sangue e il lutto il senso del rimorso, della vertigine: quel sentimento del dopo che segna la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova stagione.