TRA IMMAGINARIO E REALE
Le parole con cui veniamo accolti sulla soglia d’ingresso di questo libro sono un’indicazione spaziale, le coordinate di un luogo, “Nella Vallata dei Mughetti”, e una dedica in lingua inglese “A Mughy, Lily of the Valley, from glen to glen”. È un esordio adeguato, lo si capisce leggendo il libro ma anche pensando ad altri lavori di Claudia Manuela Turco, alias Brina Maurer. Dire (e dirsi) che, a dispetto di tutto, esiste ancora in qualche luogo del mondo e del tempo una simile Vallata, non vuol dire chiamarsi fuori dagli slings and arrows of outrageous fortune, per dirla in modo amleticamente sintetico, né cercare un’Arcadia tanto bella quanto improbabile. Piuttosto, come una tenace Alice, significa sapere guardare al di là di tutti gli specchi, i trucchi, gli enigmi, gli inganni, i conigli e i cappellai, per cercare ancora lo stupore di ciò che è semplice e naturale, la meraviglia, immensa, che a volte è racchiusa nelle piccole cose. Il titolo del libro, Il Centauro malato, è, di per sé, un segnale che non solo indica una strada ma conferisce il sapore e la sostanza di ciò che troveremo lungo il cammino. Mitologia, fantasia, immaginazione, ma anche realtà, dolore, e, dall’interazione di tutti gli elementi, la tenacia di volere scrivere di sé, tramite una poesia che si estende nell’arco di una vita intera. Il sottotitolo del libro è secco e sintetico: “Poesie 1998-2010” (Robin Edizioni). Una parola e due cifre. Scorrono via in un fiato o con uno sguardo. Ma se si scrutano bene, danno il senso di un rapporto ininterrotto con il proprio fare ed essere poesia. Ossia tra l’immedesimazione costante e schietta, senza infingimenti, tra il proprio mondo e il mondo esterno, visto, percepito e registrato tramite lo strumento della parola. Si inizia con una silloge scritta lo scorso millennio, nel 1999, quando imperava non solo il terrore dei bug in grado di bloccare i computer ma anche di qualcosa che fermasse qualcosa di ben più ampio, l’esistenza stessa del genere umano. Una paura atavica, eppure presente. Si inizia, quindi, e forse non è un caso, con una fine. Una fine potenziale, una sorta di bacillo del pensiero, una paura globale, diffusa come un contagio, una malattia. Ma la danza degli ossimori è tempistica e altrettanto puntuale. Il titolo della prima Sezione (o silloge) è “Frecce di luce”. Una possente, vitalistica sinestesia. Linguistica e tematica. La vita, nonostante tutto, sfreccia oltre, supera i confini, anche dei millenni. E, poiché nulla sembra casuale in questo libro e nelle tessere che ne compongono il mosaico, le prime parole sono una sorta di chiave ulteriore, per il passaggio specifico e per il volume nel suo insieme: “La scienza può spiegare il meccanismo che regola la natura/ ma non il fascino che essa emana”. Poco oltre, al lato opposto della stessa pagina, versi che, nell’atto di negare l’assunto, in realtà lo confermano, o confermandolo lo negano, aggiungendo una nota umanissima, schietta e rivelatrice: “Sorprendimi cuore/ lascia che io erri./ Non temo i tuoi tetri misteri”. L’ho scritto in altre occasioni e lo confermo anche qui ed ora: Claudia Manuela Turco è un’autrice, che, nella sua scrittura, sa mostrare il suo cuore nudo, trova il coraggio di superare pudori e timidezze per poter esprimere davvero ciò che sente. Non per fare sfoggio di sé, atteggiamento contrario al suo modo di essere, ma, piuttosto, per mostrare ciò che sente, il suo schierarsi con ciò che ritiene giusto, pagando anche di persona per le cause in cui crede. “Poesia, raccontami!”, scrive a pagina 13. La frase può essere letta in due modi. Come un invito alla poesia a raccontare storie e mondi, oppure, sul versante opposto, come una richiesta alla poesia affinché faccia da tramite e le consenta (come niente altro può fare) di raccontare se stessa, ciò che davvero è, al di là di ogni filtro protettivo e di ogni maschera pirandelliana indossata per sopravvivere alle pressioni del vero. Ma il punto, è giusto e opportuno ribadirlo, è che la sostanza di questo volume, così come accade per i vari libri della Turco, anche in prosa, non è mai fuga dal reale. Si tratta, piuttosto, di un paziente, accurato ed accorato lavorio interiore: un dialogo ininterrotto tra ciò che è esterno e ciò che è interiore, tra la pena e la tenacia del sogno. L’invocazione alla poesia perché possa raccontare e raccontarsi, prosegue immediatamente dopo con questi versi: “Solo in brevi sprazzi,/ affinché tu possa rendere sopportabile/ il dolore che nutre questa bellezza”. Al di là del valore estetico di questi versi, in particolar modo dell’ultimo, ritengo si possa individuare qui un primo, essenziale, irrinunciabile, codice di accesso all’universo variegato di questo libro e più in generale della produzione dell’autrice. Da un lato il dolore dall’altro la bellezza. La disfida è questa. La posta in gioco è la vita, o meglio la “vivibilità”. Perché il dolore c’è, ineluttabile, in attesa come un sicario. Ma altrettanto presente è la bellezza. Si potrebbe dire che sono elementi antitetici. Oppure che la bellezza è la cura. Ma sarebbe troppo bello, o più esattamente troppo semplice. Perché l’errore è considerare la sfida simile ad una partita di tennis in cui ciascun contendente resta dal suo lato del campo. In realtà si tratta di qualcosa di molto più simile ad un incontro di boxe, in cui, dopo essersi massacrati di colpi fino a sfinirsi i due si trovano abbracciati, per non cadere a terra, e allora scoprono di essere fatti della stessa carne, le stesse ferite. Accade allora che, nel momento di quell’intuizione, “in uno spillo di luce/ ritrovi la vita, in un’ombra, un velo del cielo”. Le armi, o più propriamente le medicine, sono arte e natura: “attraverso bifore e fughe d’archi/ scorgo/ un bosco rapito/ in un intenso sussurro”. Moltissime poesie di questo libro sono precedute inoltre da epigrafi tratte da poetesse e poeti cari all’autrice. In italiano e nel dialetto friulano. Non si tratta di abbellimenti estetici ma di vere e proprie occasioni di interazione, confronto e dialogo. Sono troppi gli esempi possibili per poterli citare o anche solo riassumere. Mi limito a citare la lirica “Appaganti vuoti avvolgenti” di pagina 40, in cui i versi di Raymond Carver ben si sposano con il desiderio dell’autrice di contrastare l’horror vacui, esaltando piuttosto la sensualità di una solitudine densa, pienissima. A confermare ulteriormente l’interrelazione tra i testi del volume, non frammenti isolati ma parti di un organismo, si trova a pagina 43 proprio un riferimento all’orrore del vuoto: “Papaveri/ in verdeggianti ricordi,/ riempiono la mente/ di un anestetico horror vacui./ Ma vincono spigoli e archi rampanti./ Il lungo pianto di oggi/ varrà/ il breve sorriso di domani.” “La strada è illuminata dal dolore anche di notte”, scrive Annenskij, riportato nell’epigrafe della poesia di pagina 54. Partendo da questa annotazione ineludibile, l’autrice traccia con segni secchi ed essenziali un ritratto del mondo, anzi della notte del mondo. “Mi allontano da tutto ciò”, aggiunge. E ancora una volta riesce a farlo solo su un magico puledro, la poesia, la sola che vive e fa sopravvivere. E il punto è se sia possibile o meno sovrapporre quel magico puledro con il Centauro del titolo. Forse no o forse sì. Ma ciò che conta è uscire dal labirinto salvando la carne dei pensieri. Il libro si nutre di ossimori e contrappunti. È indicativo in tal senso il titolo di una delle Sezioni, “Divagazioni intorno a Duetti solisti”. Nella poesia eponima si osserva che “Allo specchio/ compare sempre/ l’immagine dell’altro”. Una divagazione su uno dei temi fondamentali di tutta la filosofia, ma anche dell’arte e più un generale uno dei nodi fondamentali della mente di ciascun essere umano. Claudia Manuela Turco, coerente con il suo approccio di donna e di poetessa, non tenta di sciogliere il nodo. Ne percorre però, con intensa e accurata leggerezza, le traiettorie e le intersezioni. E tra le numerose variazioni sul tema, alcune si stagliano con la nitidezza di quadri giapponesi uniti a picassiane descrizione degli effetti delle battaglie: “La vita/ un battito d’ali bianche/ su una barricata di fucili.” Tra i quadri del mondo, non come opera isolata, ma come parte dello stesso padiglione, in antitesi e allo stesso tempo in simbiosi, compare a pagina 122 una dedica-autoritratto, quasi alla Van Gogh: “Alle infanzie non vissute,/ e ai cani eterni bambini/ che mi hanno resa fanciulla per sempre/ pur non essendolo mai stata”. Di fronte a questo dipinto di parole, rimaniamo a guardare, e, poiché tutto qui è correlato, ripensiamo ai versi citati nel paragrafo precedente, quelli in cui si fa riferimento allo specchio e all’immagine dell’altro. Sì, perché, proprio nel punto del libro in cui l’autrice parla più schiettamente di sé, finisce per fornire un ritratto anche di ogni potenziale e reale lettore di questi suoi versi. E allora diventano inesorabili, e assolutamente nel tempo e nel luogo giusto, i versi di Majakovskij. “prenderò il mio cuore/ per portarlo/ irrorato di lacrime/ come un cane/ che porta/ nella sua cuccia/ la zampa stritolata dal treno.” Eppure, e lo dice Munch, l’autore de L’Urlo, “la gioventù era una camera di malato/ e la vita una finestra radiosa illuminata dal sole”. Tra questi estremi si muovono i versi del libro. Non in linea retta ma con “Traiettorie vaganti”, citando il titolo della lirica di pagina 148, la cui epigrafe è tratta dai versi Marco Baiotto, compagno dell’autrice, “Se la musica è variazione di uno fratto effe/ non voglio saperlo/ distinguo da solo il rumore/ dalla melodia del fiume.” Questo libro si muove tra riflessione e stupore, e ancora una volta il punto più intenso si trova nella fusione, non nella contrapposizione. Nella poesia di pagina 160 l’autrice, partendo dai versi di Montale, parla del profumo dei limoni. Da quella immagine che è anche aroma e polpa tangibile, nutrimento per gli occhi e per il corpo, arriva al punto di ispirazione ed esaltazione che le fa osservare e descrivere l’esplosione di “sorrisi/ incendi/ danze di parole”. La connessione tra i limoni e la poesia stessa (esplicitata nella pagina a fianco) è tutta in quello scarto, quel salto, quell’esplosione senza morte, forse, per qualche istante, perfino senza dolore. Uno dei punti di forza del libro è nella varietà, nella gamma ampia e diversificata di accenti, toni e colori. A pagina 173 si parla di cicatrici nascoste: “il sangue ribolliva; la carne/ emanava odore di polvere da sparo”. Sembra poesia russa, Pasternak dei momenti del terrore, delle spade che recidono le braccia. Non molto oltre, a pagina 177: “Cielo di paillettes/ di pagliette/ cielo di squame luminescenti/ alabastro e rose blu”. C’è poi, in questo ampio e suggestivo caleidoscopio, anche un omaggio a Maria Grazia Lenisa e alla sua Ragazza di Arthur, passione e femminilità che neppure la malattia e il dolore hanno sconfitto del tutto. C’è “il mare che brucia le maschere” e c’è il rischio ma anche il privilegio della sincerità, quella a cui si è fatto cenno all’inizio e che ritorna, sempre vivida, capace di stupire e chiamare a sé. Questo libro offre un panorama ampio della produzione poetica di un’autrice che ha saputo crearsi uno spazio espressivo riconoscibile ed autentico, una voce lontana dai cori e dalle nenie. Con lieve ma intensissima dolcezza e determinazione, prosegue il suo percorso di autrice coerente con se stessa e con ciò in cui crede. Anche in questo libro ha saputo esprimere il coraggio dell’autenticità, parlando del dolore e della malattia (anche del male di vivere) senza mai cedere alla tentazione del patetismo, conservando una forza che rifugge dalla violenza ma anche dalla tentazione della resa. Il Centauro, a dispetto di tutto, esiste, ed è vivo. Forse è un mito, o forse è realtà, o entrambe le cose insieme. Forse è il mistero, semplice e imperscrutabile, della vita e della poesia.