AFFARI DI CUORE DI PAOLO RUFFILLI
Affari di cuore (Einaudi) di Paolo Ruffilli è un libro che desta sentimenti controversi, per il cui giudizio occorre applicare con fermezza un corretto NPV (neutral point of view), così come se seguissimo l’esortazione di Jimbo Wales (il fondatore di Wikipedia) e così come previsto dalla più classica deontologia giornalistica. Sarebbe facile lasciarsi prendere dall’impeto scatenato da antitetiche credenze valoriali (o supposte tali), sbrigliando Gorgoni e scagliando strali moralisticheggianti. Occorre invece discernere ciò che nel libro viene rappresentato, dal modo e dall’efficacia tramite cui la rappresentazione ci viene comunicata, indipendentemente dal fatto che i messaggi veicolati contrastino con la visione di ciò che crediamo sia giusto o sbagliato (l’ontologia della verità è largamente suscettibile di varianze dovute al contesto socio-temporale). Diversamente sarebbe come dire che un film è “bello” o “brutto” a seconda che la trama si svolga secondo le nostre aspettative o meno, il che ci porterebbe lontano a parlare di fuzzy logic …
Questa considerazione è a maggior ragione verosimile, tanto meno si conoscano adlerianamente le motivazioni dell’autore, tanto più di lui non si conosca l’etica personale nella vita non virtuale della carta avoriata. In effetti è per noi inconoscibile capire ove termini l’invenzione letteraria, quali siano i confini della metafora e se essa intenda creare iperbole od ossimoro, abbia finalità pedagogiche, oppure, esteticamente e liricamente, voglia in tutta trasparenza rappresentare un punto di continuità paesaggistico e figurativo delle proprie verità personali. Premessa a nostro giudizio doverosa dinanzi a versi, “poco diplomatici” e quanto mai irriverenti, quali: “nel vuoto della tua | amatissima presenza | rimasta qui stampata | inesausto aspetto e | contemplo | la sacra | sindone del letto.”, in cui la religione del sesso assume una connotazione concreta, ma scevra da una sacralità forse qui intesa come profuga dalla propria giurisdizione, oppure quelli di Atto estremo, in cui: “il massimo | che si poteva fare | io l’ho fatto. | È stato un atto | non so se generoso | o temerario, | desideroso forse | ma senza infingimento | di dimostrarti | che niente, con te, | mi è più impedito | e non mi sento | per questo, no, | uno squalo | anzi, piuttosto io, | tradito, | comperando un regalo | da portare | a tuo marito.”, versi in cui la mancanza di rispetto per ciò che potrebbero essere considerati, secondo una visione “mediamente occidentale e non necessariamente religiosa”, i pilastri valoriali della famiglia (sacrificio, fedeltà, rispetto, cura dell’altro, pazienza, perseveranza, inclinazioni al compromesso, ma anche passione e creatività nel rapporto), è davvero totale, al punto da dare l’impressione che si stia confondendo l’offendente con l’offeso. Nella sezione denominata Amore le liriche traboccano di eros (ma è una costante dell’intero volume, solo che qui è la fragranza prevalente); a tratti, velata da sapiente maquillage compositivo, ritroviamo il mito freudiano della “vagina dentata”, per esempio qui: “Il tuo fiore | ben protetto | preservato sottoposto | custodito nelle strette | coronato perfino | dalle spine | resistente alla mano | che lo cerca…”, la cui discutibile interpretazione andrebbe addirittura a rintracciarne le origini in una pulsione scatenata da ansia da castrazione. Certamente in questa sezione l’equivalenza “sesso=amore=felicità” è lapalissiana e non lascia spazio ad attenuanti spiritualistiche di sorta, come in Coniugazioni: “Che posso farti | se non amarti | per tutto quello | che ti fai fare tu da me | non solo con le mani | e io ancor di più | per tutto quello | che vuoi farmi tu: | palpare e stringere | mettere a nudo per strizzare | mordere e graffiare | e i molti altri verbi | della coniugazione in –are | come annusare | leccare succhiare | pizzicare… | che – neanche a dirlo – | hanno a che fare | coi cinque sensi | e le infinite fantasie | che riescono a innescare”. Ritroviamo poi altrove scene di sesso orale, simulazioni di violenza (altrimenti detti, “giochi erotici”), ma anche pregevole fervore passionale, che deborda a tratti in ossessione di possesso fisico, il tutto giocato sul confine semantico della metafora più maliziosamente ammiccante, sapientemente narrata e nel complesso catturante, un abito di scena lirico che certamente non mancherà di trasportare coloro che amano sbandierare vessilli di libero costume quale unico mezzo per dimostrare la propria autenticità, di là da ogni supposta ipocrisia di cui pare siano colpevoli coloro che vivono nel contegno della sobrietà e della riservatezza. In effetti l’innamorato è pazzo per definizione: solamente a noi pare difficile intendere se “l’altro” non sia in questa sede rappresentato quale mero pretesto fisiologico per operare la propria soddisfazione ormonale, il che avrebbe tutta la parvenza di una dipendenza patologica (identificata già nel 1886 dallo psichiatra Richard von Kraft Ebing, nel suo Psychopathia sexualis), più che un bisogno di presenza e contatto a tuttotondo con la sfera esistenziale del proprio partner. Ne inferiamo il dubbio (in senso letterario e non letterale, certo), nel continuo avvicendarsi di riferimenti carnali, materiali, fisici: “Può darsi | sia un retaggio | cannibalesco, | questo di mangiarsi | con gli occhi | con le mani | la bocca e tutto il resto. | Ma più ti mangio | e più mi metti | fame: | mi sazi l’appetito | senza che risulti | poi esaurito. | Ti voglio e non mi stanco | di volerti, | e non mi | basta mai | di averti”, “e, pazzo, | vado in giro | in preda al desiderio | e alla follia: | non posso | stare fermo | mi brucia il sangue | nel flusso delle vene | non trovo pace | se non nell’agonia”, e ancora: “Ti voglio | in tutta la tua carne | aperta e morsa | graffiata e stretta | per farne | l’alimento prepotente | la sola medicina”. Le liriche si snodano efficaci, pulsanti, incalzano la lettura con le loro sapienti e rapide cesure, spesso una rima garbata cela ad occhi attenti, metriche spumeggianti ed equilibrate e sonorità come bollicine in champagne millesimati. Ci pare di intuire, forse, un colpo da maestro dell’autore (ma non vorremmo assomigliare al John Nash del periodo delirante e paranoico), nella lirica Punto fermo, in cui tre rime si abbracciano come scatole cinesi, su tre livelli distinti, in cui il binomio pensiero-prigioniero contiene il binomio schermo-fermo, che a sua volta contiene pupille-mille, il tutto preceduto dall’imbeccata: “si accende | la cascata del pensiero | e viene amplificata”, la cui sibillinità sembra suggerire che le tre coppie di termini citate, siano ciò che appaiono, ovvero tre onde che si espandono e, dunque, magistralmente, amplificano, note di sassi lisci e dolcemente scagliati, che trotterellano come ragni d’acqua sulla superficie impaziente di una vergine polla d’acque sorgive. Episodi più o meno enigmistici a parte, la seconda sezione, Canzonette della passione amara, approfondisce il discorso e l’analisi interiore tra i protagonisti, innamorati “precari”, quasi sempre però dal punto di vista dell’uomo che diviene oggetto di consumo da parte di una “donna-mantide”, dispotica e capricciosa, che non rinuncia alla sicurezza di una famiglia solida e agiata, pur soddisfacendo, al contempo, le proprie voglie, con un maschio paragonabile ad un sexy toy: “Dici di volere | solo la mia pelle | e che a tirarti | è la mia carne, | non puoi avere il resto | perché non sai | che farne”, “Ci mangiamo | e nel lasciarci | dopo esserci mangiati | siamo ancora parti | l’uno dell’altra, | sempre più felici | e disperati”. Intuiamo questa dipendenza quasi annichilente, come quella condanna che pare provenire direttamente dalla punizione divina inflitta al genere umano, empio di superbia, come ci rammenta il discorso di Aristofane, citato da Platone ne Il Convito: “anzi e’ crederebbe d’avere veramente udito profferirsi quello che desiderava da tanto tempo, cioè d’esser liquefatto e mescolato col diletto suo, acciocché da due divengano uno. E la cagione è che noi eravamo così anticamente, interi: e il desiderio e lo struggimento di tornare interi, chiamasi Amore”, condanna che ci richiama all’antichissimo mito dell’essere uomo-donna asessuato, l’Androgino. Seguono ancora liriche sfrenate, disseminate in cadenze procaci, qua e là inframmezzate da scorci più riflessivi, come in Furia: “insaziati e in preda | a una furia pura | nell’ardore di incroci e posizioni, | tutto di tutto | tra di noi addosso | il più proibito | come il più ortodosso | l’uno all’altra | inchiodati e crocifissi | nello spumante | della stanza circoscritta | fino allo sfinimento | più stordito | che lascia trionfante | la sconfitta”, o ancora in Sorpresa: “Consolava me | che la andavo consolando, | io pensando a te | e, lei, a un altro | al posto mio | in un’impresa attiva | di reciproco soccorso | tra persone | e di conforto. | Noi, infelici | perché non ricambiati”, passi che ci ricordano la malinconica pragmaticità di Antoine Hèroët in questi versi: “Talvolta ci diamo alla frequenza | D’una parte ch’esser nostra pensavamo; Ma quando a conoscerla di più giungiamo, | Trovandosi agli immediati approcci, | Il tutto congiunge e riuniti i pezzi, | Entrambi si sentono delusi e traditi, | e vanno altrove; perché non paghi, | Benché ci sia reciproca beltà”. È proprio l’amarezza l’elemento di spessore di questa gruppo di liriche, l’andare oltre l’atto sessuale che infonde artificiosamente una felicità che sfiorisce col tempo, lasciando il campo ad una crisi depressiva “post-eroina in vena”. Pian piano emerge la triste verità delle tresche extraconiugali: “Muta da lontano | cerchi di affogarmi | nel silenzio, | mi chiedi scusa | appena mi rivedi | ma ribadisci | che per te è duro | dover mentire | per vedermi. | Lo dici a me | che rubo e che spergiuro | per averti”, “La verità è che | non ti piace | rinunciare | né a me né agli altri | compreso tuo marito | e ci pretendi | in proprietà del tuo destino, | se non addirittura | del tuo famelico appetito”. Quel che si delinea progressivamente, non senza una certa esasperazione infantile della percezione e della proiezione del proprio sé nel ruolo delle cose del mondo, è l’istantanea polaroid di una donna responsabile di tutte le gioie e i dolori dell’uomo, qualcosa che somiglia ad un cliché da cui non è dato sottrarsi: “Pretendevi | di startene al sicuro, | credevi | di essere fedele | a tuo marito | e invece lo tradivi | già solo fissandomi | negli occhi | e, nel tuo dirmi | – lo sguardo | già smarrito – «Ma io sono sposata», | c’era l’istigazione | a prenderti | senza più cautele | abbandonata | colta e stretta | contro il muro | e lì stanata”. Son versi inquietanti, dai quali emerge lo stereotipo della donna che, in pratica, non dice mai di no, nel senso che se dice: “sì”, è quel che voleva intendere, mentre se si nega, in realtà lo farebbe per civetteria o per esser conquistata e sedotta, dacché se ne deduce che l’obbiettivo del maschio davvero, talvolta, risulti monoculare e persecutorio, ma di certo si obbietterà che l’arte del discernimento e della seduzione hanno una lunga storia, e un uomo sa da solo ciò che la donna vuole, forse più di lei stessa … e da qui a discernere del sesso degli angeli, poco ci mancherebbe. Gli uomini tratteggiati da Paolo Ruffilli sono davvero vittime del sesso e di un’aridità interiore che non lascia scampo, forse è essa stessa la causa della ricerca di un continuo stordimento nell’atto copulatorio, quasi a volersi annullare nel possesso dell’altra per alcuni secondi, finché dura e la vita non consegna e pone in opera il suo ennesimo, inevitabile, tradimento: “e nella nostra | reciproca attrazione | disposti a tutto, | se non all’omicidio | certo al furto”. Tuttavia sono uomini (o è sempre lo stesso uomo, o l’Uomo?) che ad un certo punto si rivelano nelle loro debolezze, certamente poco virili nel senso superficiale del termine: “Così mi sveglio | solo nel letto | e non ho te vicino … | volendomi piombare | ancora tutto | dentro il mio sognare, | metto la testa chiusa | sotto il cuscino | perché nel pianto | io possa senza freno | almeno urlare”. Testa e cuore, dilemmi visti e vissuti, psicologie sentite e sviscerate, maschi e femmine che si cercano e si combattono, si amano e odiano, si lasciano e riprendono, tradiscono e si pentono (ma non sempre), proiettando sull’altro le proprie aspettative e desideri, liriche che sanno cogliere anfratti e sfumature di migliaia di storie di uomini e donne, nel corso dei secoli, secondo dinamiche più o meno immutabili. Questo sembra essere il messaggio della terza sezione, che ci parla proprio di Guerre di posizione. Proseguendo la lettura ancora strenuamente persiste il leit motiv del volume: il sesso mangiato e digerito, come bisogno primario, raffigurato esplicitamente come nelle liriche Passione e Ossessione, emblematiche di questo disancoramento sociale: “che mi spinge a uscire | fuori di me proteso | e sbilanciato | dentro lo spacco | della tua ferita | aperta e tumefatta | arresa eppure | sacco e gabbia | insieme per fortuna | e per condanna | mai più cicatrizzata”, “non so che farne, | è vero, del distacco. | Mi affido alla paura | e affondo in te | sulla tua carne | il male che mi assale | e che mi opprime”. Leggendo le liriche di Paolo Ruffilli, non ci sarebbe da meravigliarsi se una schiera di donne dovesse ritenersi offesa da certe considerazioni contenute nel volume, specie quando affiorano versi quali: “e tu distratta solo | dall’amore | accolto e amministrato | nel segno della vana | tua fiera vanità, | che ostinata chiedi, | a letto, spingendo | tutto in frana, | di essere trattata | da puttana”, oppure: “Ti ho chiesto | se volevi per davvero | per quel che vale | la mia parte | più brutale. | E’ questo, sì, | che pretendevi: | di stare, torturata, | crocifissa al palo”, o ancora: “ti alimentano tra i sogni | quelli più belli: | la casa, i vestiti, | i viaggi… | i tuoi gioielli. | Il resto, se anche | lo pretendi | e lo hai voluto, | sbiadito ormai, è solo uno starnuto”. Un libro che probabilmente resterà a riferimento, coraggioso e senza false ipocrisie, rappresentativo di un’umanità che sembra in apparenza prosperare in modo dissacrante, ma che pure soffre profondamente nel vuoto di se stessa, perché nessuno può sottrarsi troppo a lungo dal sottile ed inestinguibile richiamo della coscienza evolutiva che coinvolge, seppur a livelli diversi, tutti gli esseri viventi. Un libro di pregio nel senso intellettivo del termine, perché perfettamente aderente all’oggetto che intende rappresentare, un libro dotato di una compiutezza di pensiero, monumentale nel suo genere, che lo rende stabile, in assetto e fase di imperioso galleggiamento, dinanzi alle intemperie della più volubile critica letteraria. Un libro che presuppone una certa libertà di pensiero e giudizio, che il tempo e gli studi forse aiuteranno a discernere se rappresentativo dell’etica e della morale dell’autore o mera rappresentazione letteraria, ma ad ogni buon conto opera magistralmente orchestrata e tesa ad evidenziare le gioie, i limiti e le sventure di tanta parte del genere umano.