RISCOPRIRE DE LIBERO

RISCOPRIRE DE LIBERO

De-cidere vuol dire, stando all’etimologia della parola, tagliare. Chi decide fa una scelta: seleziona, e ne stabilisce i criteri. Questo vale per ogni cosa e anche per le discipline, sia tecniche, sia artistiche. Eppure, nel caso della critica letteraria, quest’operazione di ‘taglio’  appare proprio come un’esclusione che potremmo definire, programmatica.  Bisogna sempre tenere presente che i curatori delle antologie, spesso non selezionano e non segnalano un nuovo autore, ma lo escludono, cioè lo tagliano. Decidono, ad esempio, di scegliere un certo poeta, ma non quell’altro, o quell’altra. E allora:  è irragionevole affermare che il Novecento italiano è il secolo dei poeti tagliati? Uno fra questi, è Libero de Libero. Una strana sorte la sua: famoso e premiatissimo in vita, soltanto e quasi uno sconosciuto post mortem. Anzi, un “forestiero”,  richiamando il titolo di una sua raccolta Il Libro del Forestiero. La Ciociaria, la sua amata terra, alla quale dedicò il componimento “Ascolta la Ciociaria”, ne attesta l’importanza e il ricordo, tant’èche al poeta è stato dedicato un premio di poesia a Fondi. Eppure, sembra che di Libero de Libero,  se ne siano perse le tracce. Ma come? Proprio lui? Che ha vissuto un’esperienza poetica così intensamente profonda, tanto da essere definita: “Il miglior modo di essere uomo”? La vita di de Libero è segnata da numerose disgrazie nell’infanzia e nell’adolescenza trascorsa a Patrica, vicino Frosinone, non distante da Fondi, dove nasce nel 1903, e ricca di avvenimenti esaltanti nell’età adulta. Trasferitosi a Roma nel 1827, fonda con Diemoz “L’interplanetario” e collabora costantemente con Angioletti per “L’italia letteraria”. Il critico dà alle stampe nel 1931 due poesie dello scrittore ciociaro, anche se, ad offrirgli il totale patrocinio, saranno Ungaretti e Contu che gli pubblicano la prima raccolta in versi Solstizio (1934). Un anno dopo, un viavai di incontri e nuove amicizie segnano per sempre de Libero che da promettente letterato diventa tra i migliori promotori culturali della Capitale, assumendo la direzione artistica della Galleria della Cometa. Le opere di Afro, Scipione, Mafai, De Chirico, Savinio, Janni e Guttuso ebbero così il proprio meritato spazio e influenzeranno non poco la cadenza poetica deliberiana. Artista inesauribile scrisse molti testi poetici, vincitore di due Viareggio con Banchetto, nel 1946 e Di  brace in brace, nel 1971, de Libero pubblica negli ultimi anni con Mondadori una piccola antologia che raccoglie il primo tempo della sua produzione in versi intitolata Scempio e Lusinga, edita nel 1972. Sempre con la casa editrice milanese, il poeta ciociaro dà alle stampe la sua ultima raccolta di versi, Circostanze (1976), prima della morte sopraggiunta nell’1981, a Roma. Il viaggio nella sua poesia potrebbe apparire tortuoso se ci lasciassimo interamente fagocitare dall’ampio numero di scritti che il “forestiero” ci ha consegnato. A differenza di molti, che nel corso degli anni hanno modificato o addirittura stravolto il proprio afflato poetico, sembra che de Libero abbia tracciato per la sua poesia una linea retta in cui è riuscito a coltivare una koinè tanto personale e forte da non poter essere abbandonata. La parola è per lui è come se diventasse, più che rifugio, dimora. E il lettore, in questo modo, sente di essere ospitato in luogo antico eppure moderno, vicino ma a volte lontanissimo dove “il sole è un grido / la vita una parola mai scritta”. Dunque, è per necessità che, ai fini di una comprensione più lucida, si cominci a discorrere dall’inizio, dal celebre esordio avvenuto con Solstizio. Ogni poeta sa che la prima pubblicazione è come un battesimo. E pochi, probabilmente, come de Libero, sono riusciti ad avere un esordio così importante tanto da appannare visibilmente, almeno per un decennio, le raccolte posteriori. Solstizio è un canto espressivamente dotato, solido, che sembra aver raccolto i frutti migliori di Acque e terre e Oboe sommerso di Quasimodo: l’inevitabile sradicamento dell’uomo dalla sua terra e la ricerca nel mondo – mito dell’infanzia come indice di purezza insuperabile. Questi elementi saranno le fondamenta di quello che sarà definito un ermetismo dal timbro elegiaco e, secondo l’interpretazione di un altro poeta, Alfonso Gatto, meridionale. Eppure, in de Libero c’è, non solo un minore uso di artificium, ma anche una certa distanza dall’ermetismo di ruolo – per così dire – dalla critica. Si legga l’inizio de “La notte negli occhi” : “Adolescenza indifesa / ti cade la notte dagli occhi / quando hai la bocca / uguale alla mia”. La Natura, poi, alla stregua di un autobiografismo campestre, appare mitica e illuminata dalla forza prorompente di un sole che incendia, sveglia e diventa ombra : “non mi concede la sua sorte / il sole e per l’arsura / a fianco ho l’ombra : / albero senza foglie / mangia la propria radice”. Il fiato è corto, poco incline alla descrizione ma adatto alla sentenza, a un dire autorevole, assestato nello spazio. Non bisogna meravigliarsi di una certa staticità del libro – nonostante il suo movimento ricalca quello delle stagioni – che predilige l’idillio come misura del corpo della poesia. Si veda nel diario come de Libero senta realmente di essere investito dalla forza e dalle cose della Natura : “ il mio è un privilegio di cantare (o sia pure compiangere) la luce, la pietra, l’acqua e le piante in ogni loro avvenimento, nel loro diverso nascere”. E sarà così lungimirante questo caricarsi di valori, che troverà la sua esegesi in “Ascolta la Ciociaria”, un assoluto grido d’amore. De libero subì l’influenza del primo Quasimodo e di Ungaretti di Sentimento del tempo, e l’influsso francese di BaudelaireRimbaud fino ai nuovi esiti nuovi di Paul Valery –. Basti pensare che la fitta rete di correspondances e il senso di pureté, di cui “Solstizio” è già saturo, è solo l’inizio di una ricerca che caratterizzerà – non senza evolversi – a tal punto la poetica deliberiana, da considerarlo un surrealiste italien. Da qui, si rispolveri l’acuta osservazione di Bo che mostrava come questo poeta, apparentemente solo e taciturno, abbia scelto una rotta ai tempi poco mareggiata: “Libero de Libero ha speso tutta la sua vita inseguendo un disegno tra i più alti del nostro tempo, per dignità, per forza di tensione, mai toccato da suggestioni di comodo o da calcoli di successo (…) ha voluto “far puro” portandosi dietro tutto il frutto delle sue esperienze letterarie, artistiche o soltanto esistenziali e ha vinto questa difficile scommessa”. Le esperienze di de Libero sono, appunto, abilmente riportate nella poesia che assume un valore totalizzante in una vita dai richiami pascoliani. L’esito, tuttavia, non è rifugiarsi in un Nido familiare o ascoltare la voce del fanciullino dentro di sé, bensì, leopardianamente, è di lotta incessante contro un destino segnato dal dolore. “Autobiografia”, tra le poesie più famose di de Libero e appartenente a Solstizio, sintetizza al meglio questo aspetto: “È un veliero la mia vita / dall’infanzia segnata sulla mano / e l’ancora sta dentro la terra. (..) Se m’è fatica svegliarmi / quale gallo mi rinnegherà? / Fossi nato da una pianta / a fianco avrei il genitore”. La sapienza con cui Libero solfeggia la propria vita mostrando la verità della (sua) sofferenza e solitudine è una peculiarità messa in bella mostra in tutte le raccolte. Per questo motivo, fu criticato da alcuni scrittori a lui vicini, tra i quali Gatto che notava come la poetica del de Libero fosse immersa in un facile e melico autobiografismo. Ad oggi, diversamente, affermiamo che in determinati momenti la sintesi vita – poesia – natura non sembra funzionare, o almeno manca di un collante adeguato, che riesca a tenere insieme equilibratamente i tre versanti. Ci riferiamo ad alcune liriche di Proverbi e Testa che, talvolta, privilegiano un aspetto in particolare tra i caratteri appena elencati. Ciononostante, nulla si può togliere all’originalità e al valore di queste due raccolte che, come si vede, sono solite ad essere pronunciate insieme. Il motivo di tale legame non è solo dovuto al medesimo anno di pubblicazione (37’), ma anche e soprattutto ad una certa complementarietà tra i due testi. Con Proverbi , più di Solstizio, è ormai manifesta la complicità tra la pittura e la poesia. I contatti con la scuola romana e l’assidua frequentazione con Arturo Onofri, caposcuola del cosiddetto gruppo orfico, segnano le visioni del poeta ciociaro che da un lato dilata con più cura il timbro compianto e sentenzioso già reso nella prima raccolta e dall’altro recupera il motivo religioso insito nel titolo – “Proverbi” è uno dei tre libri della Bibbia – . Si legga l’inizio della prima lirica : “Di volubile vena / il sangue non trova un suo luogo: / al cieco non dire / la giusta strada”. E ancora : “ Battuta la pietra / dona acqua : / sempre la morte / nasconde il fuoco”. Ma de Libero non è interessato a indicare regole, massime per condurre l’uomo a una vita giusta, anzi usa con perizia il genere per sottolineare la propria condizione di prigioniero del mondo. Il canto diventa dapprima “nero”, come il titolo di un componimento, esasperando il tema dell’infanzia “cresciuta come falsa pianta”, per poi tramutarsi in inno come in “O miei giorni solenni” – probabilmente la lirica più riuscita della raccolta – la quale offre una mirabile sintesi della sua “sorte”, condensando il ricordo dei giorni passati in un tempo lontano e imperfetto. Tuttavia, la raccolta non si esaurisce unilateralmente, bensì è presente un ciclo di componimenti epico – militare che G. Lupo nella prefazione di “Racconti surreali” suggerisce di ricondurre all’osservazione che de Libero effettuò su alcune tele di Cagli e sulle rappresentazioni guerresche – citando lo stesso critico – di Paolo Uccello in “La battaglia di San Romano” ( 1435-1440). Nonostante questo nuovo tema, il testo e il corpo di Proverbi si nutre prevalentemente della stessa sostanza di Solstizio, seppur con una presenza minore del leitmotiv agreste. Significativo, inoltre, è notare come in questa seconda raccolta il poeta decide di inserire “Lamento di Arianna” del 36’ scritta per voce e pianoforte a Goffredo Petrassi. La lirica possiede un linguaggio prezioso e ben si addice al disegno poetico di Proverbi. Più equilibrato, invece, è Testa che contiene, tra l’altro, la celebre “Elegia a Fondi”. Il libro è la giusta transizione tra le prime due raccolte e Eclisse poiché possiede elementi rintracciabili in entrambe le parti. La poesia di apertura “Convito” è un invito al lettore a sedersi “alla tavola amica” e ascoltare il racconto del poeta che diventa un acutissimo cantore sia del passato che del presente, decisamente più lirico rispetto a Proverbi. Interessanti sono i nuovi risvolti presenti nella raccolta che attestano de Libero come tra le voci più prolifiche del panorama contemporaneo del tempo. La componente orfica assume maggiore rilevanza e il poeta tesse le sue visioni su un fondo onirico conciso e ben organizzato. Originale l’inizio di “Caccia” : “Vedo i cani negli occhi / d’aurora, il primo cavallo / d’alba fumante si annuncia”. Ci sono, poi, alcune liriche del libro – “Nozze di Cavalli” in primis – che lasciano intravedere una maggiore attenzione dell’autore al suo presente poiché sembrano presagire il clima di guerra che da lì a poco si realizzerà. Infine, è possibile notare in Testa la presenza – seppur debole – di un nuovo destinatario, di un “tu” rivolto non solo alla terra o al ricordo ma anche a una persona precisa e amata. Solo con Eclisse il poeta canterà a voce spiegata quest’amore, mostrandoci la nascita e l’inevitabile fine della storia. Anche per questo motivo – come giustamente D. Grégoire scriveva nella presentazione dei testi deliberiani ai lettori d’oltre alpe – si consideri il terzo libro dello scrittore ciociaro un piacevole e lucido “Canzoniere”. Una raccolta che dondola tra amore e perdizione, tra verità e illusione. Invero, la sinapsi che muove il racconto della storia avviene sempre a contatto con i luoghi dove de Libero, maestro nel genere, trasfigura l’elemento naturale per descrivere sia stati d’animo che la persona amata : “Non è più luna,/ ha stelle grandi la notte / e nella notte che fa il ricordo / il tuo volto è andato”. Importante è notare come le liriche iniziali di Eclisse si possano definire la protasi di un poema, anzi, di un viaggio nel passato in cui l’invocazione non è dedita alle muse affinché si tragga ispirazione ma, capovolgendo, è votata ai luoghi e agli oggetti per far sì che “lei” ritorni. E così il canto diventa una meravigliosa preghiera : “Finestre, quel volto ridatemi / e voi, alberi, prego / nel cielo di essere alti / sì che da lontano vi scopra: / fiumi, inseguitelo voi / nella patria nuova / dove il ricordo non fa seme”. Il poeta avvicenda al breve prologo costanti momenti epifanici riguardanti gli incontri avvenuti con l’amata e pennella la scena con così tanta grazia da apparire agli occhi del lettore viva e presente. Ma non tutto si può descrivere o raccontare. La parola – come de Libero stesso – si chiude nell’indicibile : “Se passa una nube / la mia strada s’oscura,/ dimoro in un regno da non dire”. Rapidamente la cifra del testo diventa la desolazione dove “il suo sguardo torna / a me nemico e al tempo” e “al fiume una preghiera non basta / per rifare la strada alla sorgente”. La speranza annichilisce e quel che resta sono le sue rovine. L’unico superstite in questo scenario resta probabilmente la poesia e la sua voce con un linguaggio che si estetizza man mano che il racconto va avanti. Eclisse dunque, appartiene al corpus delle opere da rivalutare con cura del Novecento dato che rappresenta un unicum nell’esperienza deliberiana per preziosismo e leggerezza formale e soprattutto per la capacità con cui il poeta coniuga la sua storia d’amore, vero gioiello e novità della sua prima produzione, assieme al già argomentato Solstizio. Bisogna aggiungere, comunque, che la definitiva consacrazione dell’autore avverrà con Il libro del Forestiero (46’), che da molti e stimati critici è considerato il libro della effettiva maturità. In questo testo, Libero de Libero sgronda all’essenzialità il suo discorso poetico pur continuando a mantenere senza affanni – citando Carrieri – “il profilo malinconico della campagna romana, la voce roccocò, la testa barocca e le maniere neoclassiche”. Infatti, anche questa nuova raccolta muove il suo percorso in modo atemporale e procede per certe illuminazioni che confluiscono in un tema mai troppo dominante: il sentirsi forestiero in ogni luogo, soprattutto a contatto con la gente della propria terra. È innegabile quindi l’effettiva ripresa del étranger solitaire baudeleriano, anche se il forestiero di de Libero volge, fuggendo dalla realtà, in un completo straniamento che – come ha ben sottolineato il già citato Lupo – riflette le inquietudini del proprio tempo. Si legga il toccante inizio di “Allodola”: “S’apre una porta dinanzi alla sera / e di te s’illumina un odore / quando al ricordo tu allodola vieni / come un soffio sul mare defunto”. Da non perdere di vista anche la descrizione del progressivo distacco, sia morale che fisico, tra il poeta e Patrica enunciato nella lirica “ Biglietto per D. B” , in cui al nome de Libero nel paese viene associato poco onestamente il termine “brigante”, segno ineludibile di una vistosa frattura. Il canto della poesia, molto meticoloso e tratteggiato, pare soggiacere all’ascolto di “un grido di pietre” che in “Ascolta la Ciociaria” diverrà l’ultima nota, l’ultimo assolo prima del definitivo addio e omaggio alla terra d’origine. In “Amici”, poi, il poeta connota il trionfo della propria autorevolezza intellettuale esponendo con equilibrio sia espressivo che linguistico che “la morte non ha simpatie, / fa come la luce col frutto, / acerbo maturo distrutto”. Si ricordi, inoltre, che, qualora si fosse pensato che il poeta avrebbe continuato a tenersi lontano dai fatti storici, Banchetto, che segue al Libro del Forestiero e premio Viareggio 49’, fornisce in alcune sezioni, intensi appunti di cronaca. Scritto fra il 42’ e 45’, il libro palesa come de Libero sia un testimone attento, diretto, slegato da ogni ‘parte’, in grado di far ascoltare tenacemente al lettore il grido di dolore e rabbia che la guerra porta con sé. “Fatti eroi per libri di scuola”, prima lirica del testo, introduce una nuova cifra dell’Opera deliberiana: la crudezza. Le classiche tinte che hanno contraddistinto il linguaggio della prima produzione artistica del poeta, ora diventano plumbee. Tuttavia, la scrittura non si opacizza ma resta viva “presso al focolare” che racconta la storia dei soldati caduti e non solo. Si veda in merito “Settembre tedesco” che descrive l’ignobile uccisione di un bambino da parte dei tedeschi. Ciononostante, anche la morte di Claudio Bin, l’innocente bambino ucciso perché rideva, “è stato attimo di storia, / la sorgente che si perde, / la goccia che si leva nella sabbia, / la lucciola all’alba che uccide, / la sorte nemica del pentimento”. Per la prima volta, poi, si scorge in modo più vistoso l’amore senza riserve di de Libero per l’Italia, “la patria decorata di scheletri”. Pertanto, il poeta – mai come prima – è dentro i fatti e scrive non solo per raccontare e testimoniare che la guerra è morte e distruzione , ma anche e soprattutto per dare una speranza, per non dimenticare. L’eccellente finale “O mia Patria in tutti i pensieri” ne è un esempio: “Sarà il tuo futuro una rivolta di zolle / e nel fragore libera ogni lode / andrai verso d’ogni poesia, / o mia patria, in tutti i miei pensieri”. A ciò, è necessario sottolineare come Banchetto non si possa considerare a pieno titolo “poesia civile”. Francesco Virdia ha lasciato in merito una critica interessante: “Poesia civile? Forse non ancora: ma piuttosto la testimonianza di un’emozione che, dai miti remoti di quella meridionalità di cui s’è detto, risale a quel cosmico dolore della gente italiana che da Dante a Leopardi ha avuto ininterrotte testimonianze della poesia nostra”. Diversamente, nella seconda sezione del libro intitolata “Versi Neri” de Libero riprende un suo grande tema, quello delle ricordanze. Rileva dall’album della sua sofferente giovinezza determinati momenti che, in un modo o nell’altro, gli hanno stravolto la vita. “Proprio un mattino d’aprile”, poesia luttuosa, indica appunto questa esigenza di far conoscere il proprio dolore, confessando senza indugi le irreparabili conseguenze che la morte di una persona cara, il fratello, ha arrecato alla sua vita. L’elevato lirismo del testo e della sezione in generale – marchio di fabbrica della poetica deliberiana – è livellato da un linguaggio non troppo etereo e ben comprensibile da un lettore che pagina dopo pagina sembra misteriosamente trovarsi nell’epicentro di un dolore iniziato molto lontano. Si presti, poi, particolare attenzione a “Versi neri” che racconta il viaggio spirituale del poeta verso luoghi non conosciuti, surreali: “Andai nei golfi del Nord / dove si spegna l’iperbole serena / del mare in grembo ai ghiacci / e nasce azzurra la pianta dell’oblio, / sulle piste del Sud che inasprisce / la polvere e comincia della noia / il regno e sui tetti il lichene / fa soave geografia ai colombi”. Il richiamo a Rimbaud e al suo celeberrimo “Le bateau ivre” è indubbio, anche se non bisogna a tutti costi trovare certe analogie solo per rendere più fascinoso il confronto. Già A. Savinio fu lapidario e attestò de Libero con queste parole: “Un Rimbaud nostro e che il demone ha lasciato in pace. Ma ugualmente a lui per la dolcezza di nostalgia, per alte meditazioni, per lunghezza di sguardo”. Certo, è inconfutabile che de Libero sia stato probabilmente tra i più grandi poeti estimatori del genio di Charleville del Novecento italiano (basti leggere cosa scrivesse di lui nel diario) e che, in un certo senso, sia partito da quell’esperienza estremamente fisica che lo stesso ebbe con la parola poetica. Tuttavia, considerarlo con i termini che ci ha lasciato Savinio, ad oggi, pare un’affermazione troppo larga e allo stesso tempo troppo stretta per attestare-recuperare de Libero. C’è sì quella “lunghezza di sguardo” di cui scrisse Savinio, ma sussistono più differenze che similitudini. L’influenza è comunque arginata e bisogna dare atto che de Libero abbia misuratamente sintetizzato – come già detto all’inizio – i tratti fondamentali del simbolismo-surrealismo francese riportandoli nella sua poesia originalmente. Ritornando a Banchetto e alle sue sezioni, l’ultima del libro è intitolata “Cantari di Ciociaria”, dove troviamo il componimento più conosciuto di de Libero, uscito in quegli anni in numerose plaquette, ovverosia “Ascolta la Ciociaria” , che, data importanza, è stata citata più volte in questo saggio. Dedicata all’amico Guido Mosillo, la lirica è un invito a conoscere la terra d’origine del poeta. La Ciociaria deve essere per un viaggiatore una tappa necessaria, una fermata rigenerativa per continuare al meglio il cammino. In questo, offrendo tutte le sue competenze in merito, de Libero ritrae con i colori più vivi e veri possibili una zona che, come la poesia, ti chiede l’ascolto. Il continuo nominare di boschi, fiumiciattoli, vicoli, colline è un’attestazione di interesse, un monito per non lasciarsi sfuggire niente perché “spesso non s’incontra la Ciociaria, / da una rondine l’hai intesa lodare, / dalla rocca non l’hai vista a Paliano, / per le acque del Cosa non sei passato / e a una curva di Veroli e alla via di Ripi”. Inoltre, non bisogna solo porre attenzione ai luoghi, ma anche alle persone che vi abitano: la donna ciociara che è possibile riconoscerla dai lacci mordenti al busto, dal “passo che musica i suoi fianchi”. L’inno, poi, levandosi sempre più in alto, diventa uno splendido vocativo che fa del poeta l’unico vero ascoltatore e trascrittore dei miti e della bellezza della propria terra. Il suo compito, quindi, è quello di mostrare a tutti, anche ai propri concittadini, questi profumi che inondano una regione intera. E così, l’esperienza di de Libero diventa esemplare, s’idealizza poiché sa quasi tutti i segreti che nasconde la Ciociaria. E quelli che non sa, vuole conoscerli: “dimmi la strada, dimmi, faticosa / collina che dentro il fiume riposi”. Il climax ascendente raggiunge in questo modo la sua vetta per poi calare lentamente la sua enfasi fino alle strofe finali, quasi sussurrate. E come le ultime parole prima di concludere una preghiera, de Libero circoscrive il suo omaggio con una speranza: “O mia voce deserta, Ciociaria, / conservami un sasso delle tue colline / se non torno e nell’avida acqua / dei tuoi fossi cerca l’immagine mia”. Un simile tributo alla propria terra, probabilmente, pochi poeti italiani del Novecento sono riusciti a mettere su carta. Del resto, sembra ormai chiaro il motivo per cui andrebbero rispolverato, ritrovato de Libero. La “scommessa” di cui scriveva Bo è oggi, più di allora, vinta perché in un mondo caduto nel solco dell’afasia e dell’inadempienza dell’ascolto di sé e dell’altro, la poesia deliberiana migliora il proprio sentire del e nel mondo. Libero de Libero, nel suo excursus artistico, ci svela a voce alta la sconfinata importanza della parola, la quale, scavata nel verso, è la sola a rendere unico il luogo, sempre presente, della poesia, che è anche e soprattutto uno spazio abitato di vita, una terra, come la Ciociaria, da amare e sentire.

Bruno Conte

Poesiablograinews

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