‘GLI STRUMENTI UMANI’ DI SERENI

‘GLI STRUMENTI UMANI’ DI SERENI

Nel rileggere gli Strumenti umani  (Il Saggiatore) di Vittorio Sereni ci si sente ancora oggi divisi tra due sensazioni contrastanti, già segnalate a suo tempo da Cesare Garboli: quella di essere «ospiti, assolutamente indiscreti» di questi versi, trovandoci tuttavia di fronte a un «discorso che ci riguarda strettamente da vicino», sospesi davanti «all’impossibile epifania di un segreto» che parla a nome di tutti (Garboli, 1968, p. 165). La concretezza, l’oggettivazione che spingeva Sereni a non inventare mai nulla («in genere io sono pignolo su questi dati», scrive a Fortini del 1975, e già nel 1937 in una lettera a Vigorelli ammette di essere un poeta centrato sulle “cose”, non sull’io) ha il suo doppio speculare nell’astrazione, nella riduzione del dato esplicito a favore di una declinazione a tratti gnomica, che consente al lettore di individuare nelle liriche di Sereni un’apertura alla dimensione universale, di riconoscere un comune spazio culturale o teorico. Gli elementi coinvolti nella rappresentazione poetica risultano in tal modo «sovradeterminati»: le cose, gli oggetti, diciamo il mondo, hanno un loro preciso statuto di realtà nella poesia di Sereni; eppure – lo ha notato Stefano Agosti – «figurano caricati di una connotazione insolita rispetto a quella abituale, in quanto sospesi in un’altra aura, che non è più quella della percezione ordinaria cui è affidata la registrazione della realtà» (2014, p. 19). In questa doppia dimensione, la realtà (Voldomino, Zenna, una vetrina o una vecchia pianta) senza perdere nulla della sua determinazione e della sua riconoscibilità geografica, restituisce un’immagine di sé più ricca, carica di tonalità che sconfinano nei territori onirici (e sappiamo quanto il sogno sia un locus fondamentale della poesia di Sereni). Un generale effetto di perplessità proietta sui versi di Sereni una atmosfera di attesa, già allusa dall’autore in una prosa del 1947, dove il poeta veniva descritto come un credente che aspetti i segni della grazia, convinto esclusivamente della predestinazione e senza fiducia nel merito che l’operare potrà acquistargli; e che tuttavia non può fare a meno di operare sapendo che non le opere gli daranno la grazia ma che attraverso le opere soltanto egli potrà spiare l’avvento dei segni che aspetta (Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, p. 30). Nello stesso testo, dando seguito alla metafora luterana, Sereni scriveva che la poesia è «giustificazione» del proprio «passaggio nel mondo», ma questo transito più che configurarsi come serie di atti volontaristici, imprese o progetti, è attesa di un segno, di un «dì che vola / a gente che di là forse l’aspetta», quindi di una possibilità di salvezza che giungerà imprevista e imprevedibile, come nella petrarchesca Canzone 50. D’altro canto, proprio all’insegna di un’inquieta apprensione, tra «la noia e ’l mal de la passata via» (v. 11), si apre la raccolta del 1965: «E qui t’aspetto» (Esperienza della poesia, p. 30 e Via Scarlatti, v. 17). Che cosa significa, per un poeta come Sereni, operare a dispetto di una sostanziale, per quanto inconfessabile, sfiducia nelle opere stesse? In buona parte, significa depotenziare il valore della letteratura come a-priori o come assoluto, e sostituirvi l’idea che essa sia, più che un valore in atto, un valore in potenza, una energia in continua tensione con la nostra esistenza, da cui la poesia scaturisce incessantemente, come le sorgenti della Sorgue a Fontaine de Vaucluse (Sereni, 1968, p. 37). In questo campo di forze in vibrazione continua agiscono le manifestazioni concrete della realtà, che rendono la poesia sereniana profondamente eteronoma, impegnata nel tentativo «di fronteggiare l’esistenza, di darne una ragione» a dispetto della precarietà dei mezzi a disposizione: scrivere cioè «come vacuità», ma anche come «forma di vitalità» (Sereni, 1980, p. 40). Dunque che cosa sono gli Strumenti umani se non, propriamente, gli attrezzi grazie ai quali – per mezzo dei quali – il poeta fronteggia l’esistente, lo comprende e gli offre una collocazione di senso? Attraverso cui, ancora, egli opera nel mondo (spiando i segni della propria predestinazione) e offre una «giustificazione» del proprio transito? In una lettera a Gabriella Palli Baroni del dicembre 1978, Sereni stesso dichiarava che gli strumenti «sono i mezzi, gli espedienti […] precari o insufficienti, con cui noi – uomini, umanità – intratteniamo il rapporto col reale, storia inclusa» (Palli Baroni, 1987, p. 115). Proprio nell’anno di pubblicazione del suo terzo libro, nella prefazione alle Ricerche sull’amor famigliare di Banfi, Sereni richiamava la necessità di individuare degli «strumenti» in grado di offrire di volta in volta «appigli sul flusso dell’esistenza» (Ferretti, 1999, p. 137). Il livello di consapevolezza, di compattezza e di coerenza interna di questa raccolta è altissimo, reso più evidente da quelle «combinazioni variabili di poche invarianti tematiche fondamentali» descritte da Mengaldo già nel 1972 (ora in 2013, p. 142). La divisione in cinque sezioni non è solo il risultato del policentrismo che caratterizza il libro (Borio, 2010, p. 380): essa corrisponde più in profondità all’individuazione di cinque precisi strumenti di giustificazione, di conoscenza di sé in rapporto al mondo, dunque di azione in quel campo di tensione che si forma tra la poesia e la realtà. …

Chiara Fenoglio

Prefazione

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