PALAZZESCHI E IL MELODRAMMA
Recita con arguzia una poesia del tardo Aldo Palazzeschi di Via delle cento stelle intitolata Il melodramma: «Non v’è dubbio che lo spirito italiano / del nostro ultimo tempo / si sia temprato al fuoco del melodramma. / Il melodramma è l’esponente / di questa nostra ormai invecchiata / ma ancora resistente civiltà. / Accettata tale premessa / resta solo da domandarci / se l’italiano / melodrammatico per natura / abbia creato il melodramma / o il melodramma abbia creato lui / melodrammatico di conseguenza». Sta di fatto che fin da giovane, con assoluta precocità, Aldo Palazzeschi promuove il melodramma a componente visibile dei suoi avanguardistici scherzi di gioventù e, insieme, della sua cultura di autore formidabile: di scrittore illetterato e geniale, che anche nella simpatia per la «musica delle grandi passioni» e addirittura nella proclamata predilezione per due opere messa in bocca al suo io letterario diviso (il maschile «lavativo» poeta e la femminile «virile» Contessa Maria dell’indimenticabile Interrogatorio) si ribadisce «incendiario», e sia pure, lasciando trapelare l’altra faccia «grigia» anzichè «rossa», malinconica e crepuscolare della sua personalità, un «povero incendiario da poesia». In un romanzo così trasgressivo ed implicante da restare miseramente impubblicato nel cassetto come Interrogatorio della Contessa Maria il verdiano Trovatore (librettisticamente citato nell’emblematica aria di Manrico Di quella pira…) e la belliniana Norma subito si impongono come le opere predilette: si impongono in abbinamento e di necessità, perché ambedue opere ignifere, incendiarie, conclusivamente affidate, nell’ambito dei loro diversissimi intrecci conflittual-passionali sublimati in musica, all’ardore dell’eros e alla risoluzione catartica del rogo, del fuoco che nel contempo distrugge e purifica. Norma e Trovatore, del resto, avevano già fatto la loro certificabile apparizione in chiave ludica di ribaltamento e di paradosso in una «Spazzatura» apparsa sulla rivista del futurismo fiorentino «Lacerba» il 21 febbraio del 1915: «Spazzatura» in seguito rimasta, ci si passi il gioco di parole, irraccolta, consistente in davvero provocatori, sintetici e scandalosissimi Melodrammi produttori di riso, la cui oscena gamma di riferimento per via di prelievi testuali a doppio senso svaria – oltre molto Verdi, oltre Bellini e Mascagni – dal Donizetti di Lucia e dell’Elisir d’amore al Puccini di Bohème, dal Ponchielli di Gioconda al Catalani di Loreley, dal rossiniano Guglielmo Tell al Lohengrin di Wagner secondo Cescatti, fino al Paisiello di Nina ossia La pazza per amore, con la sua nenia Il mio ben quando verràche avrebbe potuto partecipare di diritto pure alla parte finale del testo, al suo pirotecnico apice umoristico su base vocabolaristica da equivoci e fraintesi con relativi commenti d’autore. L’immoralismo di Palazzeschi, nello scritto di «Lacerba», trionfa. Ma a noi qui interessa piuttosto suggerire come la poetica di Palazzeschi fin da allora avesse già previsto con ampiezza il differito dei traslati e il falso, l’innaturale e il teatrale, e in primo luogo fornire proprio attraverso il melodramma da Palazzeschi frequentatissimo, tra parodia e condivisione, un esempio di «scriver cantando». In esso è efficiente (siamo nel 1909) La Bohème di Puccini (anno di debutto dell’opera 1896, successo strepitoso immediato e protrattosi, come tutti sanno, fino ai nostri giorni). Pensiamo al celebre Chi sono? posto dall’autore ad apertura di Poemi e in seguito confermato in altre sillogi delle sue poesie in tale posizione privilegiata: una canonica lirica-autoritratto culminante tramite negazioni ed esclusioni nel suggestivo endecasillabo definitorio che recita «Il saltimbanco dell’anima mia»; una lirica tributaria nei confronti dell’atto I della pucciniana Bohème. «Chi son? – dunque, canta Rodolfo, muovendosi al buio di una fredda soffitta parigina e già come Palazzeschi divertendosi – Sono un poeta. / Che cosa faccio? Scrivo». Rodolfo fornisce così a un altro poeta in vena di autointerrogazioni («Chi sono?») e in cerca di definizioni di sé mediante la «penna dell’anima» il riferimento scrittorio e perfino lo specifico vocabolo «anima» («l’anima ho milionaria»). Spetterà invece alla replica dell’importuna, sottilmente maliziosa più che sventata vicina Mimì (Sì. Mi chiamano Mimì), per suo conto artistica artigiana del falso, autorizzare un gioco di sensi al negativo (fiori ricamati, artefatti, i suoi, che «non hanno odore», per un Palazzeschi che per di più qui scrive, echeggiando, «Non ha che un colore») e contribuire soprattutto all’allestimento della sequenza rimica portante del componimento: mia alternativamente rimante con follìa, malinconìa, nostalgìa. A partire dal suo stesso nome anagrafico dichiarato, Lucia, che nel testo librettistico dell’aria rima, sempre in -ia, ripetutamente, con mia, malìa e poesia.