“NATURA MORTA” DI RUFFILLI
SIGNIFICAR PER VERBA. SI STACCA LA PAROLA, UN ANTEFATTO DI NATURA MORTA (Aragno Editore)
Poesia, per Paolo Ruffilli, è inquisizione del fondo del vivente, la ricerca di trame sedimentate attraverso una immaginazione che trasvaluti il senso romantico del termine. Trafiggere e valicare l’evidenza, fingersi, immaginare. Avere di mira la saturazione, assumere l’oscurità che alla luce intrinsecamente compete, invenire la verità «del retroscena», vincolandola allo strato della scena. Effratto il limes dell’evidenza, cioè dell’erronea cognizione, il paradigma dell’immaginazione promuove l’emergenza de profundis di realtà che permarrebbero inaccesse a una visione superficiale e pregiudizialmente lacunosa. L’immaginazione cui Ruffilli fa riferimento è immersa nella corposità delle sensazioni e delle percezioni. È di ascendenza einsteniana, in tendenza quindi tutt’altro che campata in aria e tutt’altro che scissa dal mondo reale, avendo il costituente fantastico restituito all’evidenza intimamente a che fare con il fondale delle stratificazioni e con attinenze inespresse dove si sta fattivamente scandagliando. Niente di piú estraneo alla fantasticheria o alla immaginosità gratuite e svincolate. È solo in virtú di una finzione – quale atto, esito del fingere, cioè, nel linguaggio di Ruffilli, del «dare forma» al vero – avente specifica finalità conoscitiva che la parola tornerà da lontano, affrancata «dal groviglio», sia del mormorio indistinto, sia del nodo occasionato dall’afflusso dei referti del sogno, e con l’abolizione di quanto tratteneva di accessorio essa è ora abilitata a nominare – e il nome sarà sempre sostantivo concreto –, cioè a presentificare, «il corpo dell’ombra». Il momento di illuminazione accade «di colpo», in altri luoghi Ruffilli dice «all’improvviso», e coglie di sorpresa, ma il «flash inaspettato» è destinato a perdurare fuori della sfera dell’arte? Si stacca la parola: «Ecco che di colpo / riesco a dare / corpo all’ombra, / si stacca la parola / dal groviglio / e dà forma al fantasma / figlio del sogno / che si sveglia / e respira / il respiro della vita / con il suo peso / e con la meraviglia / che il carico deforma /e che potenzia / mentre lo assottiglia». «Si stacca la parola», immagine erompente che «di colpo» elide l’interdizione delle trame dell’apparenza. L’atto semantico si ha in seguito a un incontro incidentale e insieme strenuamente ambito. Se l’immaginazione, volontariamente esercitata, costituisce la costante metodica ruffilliana, casuale è l’occasione rivelatrice del senso «del retroscena». Come rilevavo in Ombra densa per le ortensie di Trouville…, mio contributo a Pentacordo per Paolo Ruffilli, la madeleine in Ruffilli appare intenzionale, e si complica per il carattere di sfocatura (carattere estraneo al sensibilismo impressionista) della traccia, dell’istante rivelativo ma fuggevole che la stessa fotografia – cosí in Camera oscura – si illude di arrestare. Va ad interferire con l’imprendibilità di dettagli che richiamano qualcosa che ci appartiene ma che non incontreremo mai, con immagini riflesse e sbiadite o date in filigrana. Con rifrazioni di ombre che localizzano l’imminenza di una asintotica pienezza còlta nell’istante del suo sfarsi (centrali, a riguardo, alcuni punti in Affari di cuore). E soprattutto, questi dettagli – i «segni», i «dati» di Camera oscura – non attengono unicamente al ritrovamento del tempo, o alla verità del tempo ritrovato: il frammento di passato è irreperibile anche perché imbrigliato nel desiderio che inibisce ogni trascrizione che aspiri a restituirne l’originale. Se i segni sono, come sono, in grado di illuminare un’intera vita o soltanto frazioni della vita, paiono comunque prossimi alla rarefazione perché essi stessi divenienti. Sono prossimi alla rarefazione anche per via di quella nozione di distanza che in Ruffilli si flette in diversi modi: la distanza da noi è altamente retrospettivante, viene detto in Diario di Normandia; ma distanza designa al contempo l’inadeguatezza dei nostri strumenti conoscitivi, per cui guardiamo le cose dall’esterno lasciandoci sfuggire il costitutivo dell’esistenza. A cosa afferisce il reperto dell’immaginazione? O altrimenti detto: cosa implica «dare corpo all’ombra»? Nel dittico vuoto/pieno, o concavo/convesso, il tramite per colmare l’opacità è l’atto del nominare, del «dare forma al fantasma», il configurare e circoscrivere nel «reticolo del nome» una forma dai bordi non sfilacciati e che scavalchi l’opposizione delle cose. Cose che tendono a resistere per il loro intrinseco statuto duale e per lo spessore dell’evidenza che le alona. Rinvenuta per dare un nome e «solidi confini» all’essere – e al pensiero che vi si riferisca –, la parola poetica non gli somiglia perché l’esistente costantemente trasmuta. Ma la metamorfosi non sortisce l’indefinizione come esito, non impedisce la fondazione del lessico incisivo, nitido e testimoniale, e non infinitivo o al condizionale, di Ruffilli. Un lessico che ha il credito di un attestato. Statuizione, non indeterminazione: una letteralità lapidaria che surclassa l’evocatività e l’ornamento della lingua, talora fattori delegittimanti. Quest’ultima circostanza non entra in conflitto con il fatto che le cose prendono una designazione in corso d’opera. I risultati della ricerca di Ruffilli si manifestano mentre la ricerca è in atto («Il nome non ancora / pronunciato…»), mentre si compie. Quindi nel movimento. E dire di «ciò che cambia / mentre dura» comporta l’asistematicità – inevitabile, inintenzionale – di una scrittura aforistica. Sorge allora il problema della traduzione in parole di parole non ancora rispondenti a un sistema, ma rispondenti a una Ipotesi di lavoro, appunto: «al liquido pensiero / dar solidi confini». Ciò che si vuole oggettivare è uno stato metamorfico: il nome c’è, ma quanto è adeguato a significare il dinamico e contrastato spazio esistenziale nel quale il dinamismo trova la sua articolata dialettica? A significare il suo teso, profondo e corrugato moto espressivo, la sua problematica declinazione-implosione verbale e stilistica? La parola poetica in Ruffilli ha sempre sopravanzato la realtà per la sua idoneità a tradurre il senso dell’esistenza. Avvertita – senza ricadute nell’estetismo o nella iperbole – come un «a priori», un «eccitante» è lo strumento tramite il quale oggettivare lo sguardo umano indagatore nei piani coacervi dell’apparente. Se da un lato è piena di assenza in quanto si pone come ricettività al senso, anch’essa vuoto da occupare, dall’altro, costituisce in Si stacca la parola l’elemento di differenziazione: si divarica dal nebuloso profondo ai confini con l’incognito, dalle risonanze incerte che prevaricano la luce implicata nell’ombra, dallo status vaghissimo e affastellato istituito dai fantasmi del sogno in vista di una loro identificazione. È dai tempi di Quattro quarti di luna del resto che quella del linguaggio poetico – del «quale linguaggio per cercare» in Natura morta – viene sentita da Ruffilli come la questione assolutamente prioritaria, per lo meno in termini di insufficienza di un codice scevro di sostanza vivente. Ma cos’è vivente per Ruffilli? Non piú ormai dramatis persona dei propri versi, l’autore non ci convoca all’interno di un’opera dove egli stesso è estromesso anche dal profilo della evocazione memoriale, e dove non si avverte neppure l’eco di una sovrapposizione di arte e vita. Anzi, l’impressione è che si voglia spoetizzare la vita. Il vivente, in Natura morta, è lo stato delle cose senza né chiarezza né distinzione, è la varia unitas e l’alchimia dei contrari nell’eterno fluire dei contorni. Ma torniamo ai versi del 1973, dove Ruffilli lascia molte tracce di sé, tuttavia… «Conosco le parole piú squadrate, / battute a fuoco lento / contro muri spessi di cultura, /e discorsi di logica / incatenati all’astrazione, / ma non persuadono piú / neppure un grumo del mio corpo / fradicio di giovinezza». Ora, è evidente che qui deprivi di essenza non solo l’astrazione nell’accezione di una arbitraria costruzione del pensiero o di un fantasticare utopico, quanto anzitutto nel senso di tenere idealmente distinte proprietà parziali di un oggetto, dell’enfatizzare una delle componenti di una nozione prescindendo dalle altre. Nei versi giovanili l’astrazione configura l’inverso della vita. Poi Ruffilli assumerà il processo astrattivo come necessario: l’uomo ha sempre istintivamente esercitato l’astrazione allo scopo di padroneggiare una natura arcana e indocile, si legge negli Appunti per una ipotesi di poetica che chiudono Natura morta. L’utilizzo di simboli sorge dall’esigenza umana di «ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». E se nella sezione conclusiva di quest’opera, «Piccolo inventario delle cose notevoli» (dove la riflessione a tratti si trasferisce al corpo vivente, ma al di qua di seduzioni paniche, dato che l’uomo, in forza delle sue facoltà pensanti, è separato dal resto dell’esistente pur condividendone la destinazione), sorta di manuale di istruzioni per la vita, si assiste all’inveramento di cognizioni astratte nella concretezza dell’esperienza è anzitutto perché il processo di enunciazione ambisce ad assolvere questa funzione, là dove reale, e contraddittoriamente unitario, è il fondale in cui l’immaginazione dà corso alla sua opera di rilevamento. Dare corpo all’ombra non ha quindi a che fare con istanze memoriali, ma consiste nell’accordare spaziosità alla vacuità. Sottilmente invertendo la linea del percorso astraente che mira alla parzializzazione dell’oggetto, ciò che è individuale contiene la totalità e si fa vero nell’acquisizione di realtà. Il vuoto è il presupposto dell’esistente, il contenitore in attesa del suo contenuto. Il senso è allora un nostro artefatto? Si potrebbe replicare sia affermativamente che negativamente. È un artefatto umano in quanto esito di una indagine sorta dietro una ispirazione immaginativa. Non lo è perché è la necessità fisica, o di natura, a dominare l’esistenza anche dove sembrerebbe regnare il caso. «Il caso è un nome / della necessità», abbiamo letto in Natura morta. Still life in lingua inglese, dove still traduce inanimata, immobile, calma, silenziosa. Perché Ruffilli ha assegnato un titolo allusivo a un genere pittorico che rimanda all’immobilità anziché alla metamorfosi, tematicamente centrale nella sua opera? Forse perché le fasi sincrone della dissoluzione e della rigenerazione si offrono a una contemplazione istantanea? O per il fatto che il valore aggettivale di still si accorda con la sensazione di quiete (definita «il passo della vita», «la regola del mondo») restituita da una voce narrante unitonale e quasi spersonalizzata nella sua pensosità, che per lo piú si limita ad osservare, definendole, le vicende alterne della materia, e dell’uomo quale suo riflesso in una dimensione pensante? Certo, c’è l’idea di voler catturare il lato che delle cose resiste all’obsolescenza rispetto a quello che deperisce e viene a termine. Soprattutto c’è l’idea che ciò che sembra estinto è solo «apparentemente morto, continua ad essere molto vivo». E quindi è su life, sulla vita che continua in un altro assetto, sui residui non spenti e non sull’estinzione che Ruffilli pone l’accento. È il rinnovamento nel continuum del mutevole fluire vitale, dicevo in Moving life, dove tento un avvicinamento a Natura morta. La metamorfosi secondo alcuni si verificherebbe fuori della prospettiva lineare del tempo, in una dimensione dove le cose tornerebbero indietro. Ma non lasciamoci fuorviare dai versi che in Natura morta inaugurano la sezione Del tempo: «Chioma di fiamma / che eternamente mangia / la sua coda». Qui viene allusa la natura del fuoco e il suo autobruciarsi in ogni fiammata, nello stesso istante dalla testa alla coda. L’idea di una eterna ripetibilità del tempo non fa il caso di Ruffilli, che per altro è lontanissimo dal delineare forme di nichilismo da redimere – sappiamo invece della centralità del vuoto nella sua visione delle cose. Il coesistere di essere e di divenire non implica la reversibilità del tempo e il collaterale svanire del soggetto della decisione, nonché il morire sul nascere della vita stessa, se ogni cosa è vincolata alla circolarità. La linearità temporale quindi non altera il senso della natura morta, perché oltre la tirannia del tempo è il trasmutare delle cose. Forse c’è anche il riferimento a una permanenza diversa, non unilinearmente configurata, come in Teilhard de Chardin, in virtú di deviazioni di traiettorie luminose che non precludono il particolare minimo, infinitesimo ma significativo. Per quel carattere, inoltre, di una esistenza procrastinata (quello stesso galleggiamento, quell’abbandonarsi alla sospensione perpetua della condizione insulare, all’immaginazione ad opera del sogno, della trazione della memoria che abbiamo visto marcare estensivamente il romanzo L’isola e il sogno prima della death by water) e, al contempo, per la pienezza, totalità e perfezione, per il sovrano margine di autonomia di cui viene a fruire – «di colpo», «all’improvviso» – ogni singolo elemento compositivo. Oppure, vengono in mente certe nature morte primonovecentesche, in cui tutto appare mobile, animato, corpularistico, e dove il corteo di oggetti in posa, che dovrebbero costituire il centro di interesse, deborda finendo per partecipare della stessa sostanza dello sfondo, cosí mimando la contestualità del diverso. O ancora, come sembra suggerire Ruffilli nelle note sulla sua poetica, la rappresentazione artificiale dà il nome a quella che potrebbe essere l’originaria. Nella natura morta nulla è disposto casualmente: ogni singola entità entra in relazione con il resto e vive la contraddizione nella rivelazione degli opposti, e in questa prospettiva essa potrebbe funzionare da parafrasi dell’enigma insito nell’ordine necessario. La definizione natura morta è comunque addotta a siglare una antitesi, la persistenza della vita in un contesto di disfacimento, la mobile immobilità, l’idea del movimento rappresentato attraverso figure immobili, silenti testimoni della metamorfosi, e quindi reso eterno. Un’antitesi che volga l’ispirazione alla pronuncia di una realtà in difetto di nome, che traduca la continuità temporale del «durare anche nell’assenza // per la permanenza del principio». Ruffilli stesso avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a durare». Vi risuona una remota eco ortisiana (lettera del 13 maggio): «La materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce». Ma soprattutto, come dice il San Paolo di Pasolini: «Quello che semina non ritorna vita se prima non muore». Nella Gioia e il lutto la verità della vita era una labile acquisizione dell’essere morente, della figura di trapasso: «La verità che si apre / e si richiude sull’ignoto». E questo assunto potrebbe essere esteso al balenare transitorio dell’istante duale degli ineliminabili contrari, e dunque della realizzazione della pienezza dell’esperienza. Perché nella contemporaneità degli opposti (sotto il profilo del tempo, il gozzaniano hic crisalideo del non piú-non ancora, dove «la vita / sorride alla sorella inconciliabile / e i loro volti fanno un volto solo») sopravvive il principio della contraddizione che ratifica l’essere intrinsecamente coerente del radicalmente disuguale: principio che per Ruffilli costituisce, come ha asserito, «il vero mistero della vita e della morte, la vita che germoglia dal niente e dal vuoto». È il coefficiente gioioso del lutto, come designato per condensazione nell’azzardosa diade del libro sull’Aids, che fonde i territori contermini dell’esistere. «È la realtà incoerente, / il vuoto e il pieno / della vita, la sua / andatura intermittente, /la misura finita / e balbuziente / del nostro piede /incespicante / scivolato sul niente, / il lato e dato /umano della storia» «Peso» e «meraviglia» della vita – in Si stacca la parola – sono fattori divergenti che condividono delle caratteristiche, l’uno è il prodotto dell’altro, sono concomitanti, causale è il nesso della loro reciprocità. Il «carico» dell’esperienza li «deforma», perché l’esistente è soggetto a mutamento, alla liquefazione cui segue una ricreazione: esso è «gioia» e «lutto», vita che si rigenera dal vacuum che presuppone («di quanta morte / necessita la vita / per fiorire»), esistenza conferita qui da una sostanza verbale che si dissimila dall’indifferenziato e dal suo statuto di intermittenza («fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cadendo a fondo», Affari di cuore) fissando «il nome della cosa / immaginato» per lo meno sulla pagina scritta. Ma resta un incompiuto fuori della pagina in virtù dell’immediato e imperioso riaffiorare del contrario spaiato e retrostante che destabilizza («tutto // è sempre immaginato, / e niente mai si sa»), dando luogo a quella impressione di vertigine che non di rado insorge di fronte a certi versi di Ruffilli. Sotto questo profilo, la sua tecnica versificatoria ha un tratto in comune con la fotografia: come la lastra fotografica, essa definisce un istante concluso mentre spalanca lo spazio sconfinato dell’interpretabile. Forse anche per questo il nome in Ruffilli, benché limpido e circoscrivente le instabili forme all’apparenza disperse, leggero e saturo, talora cambia di contesto migrando insieme a singoli versi o ad intere strofe da un’opera all’altra, divenendo anch’esso qualcosa di mutevole e reattivo in assetti nel frattempo profondamente evoluti. Stilema – non certo ludus – che adombra una mimesi anche a livello testuale di uno stato delle cose: orizzonte aperto e interminabile dell’inchiesta tesa alla adeguata immagine. L’iterazione – il riuso di sé – differisce piuttosto le tracce indiziarie di un percorso cifrato, alluso al lettore che sia attento a correlare sensi già comparsi a nuovi nessi tutti da definire. Come in una fuga di Bach, che ridesta e rinnova costantemente il tempo nel momento stesso in cui pare sospenderlo e annullarlo nella perfezione formale. La metamorfosi, effetto della contraddizione, implica che il «carico» empirico incrementi e contemporaneamente sottragga o arrotondi per difetto (sebbene in Ruffilli l’atto dell’assottigliare istituisca in linea di principio un accrescimento di carattere qualitativo, in quanto essenzializza attraverso l’esclusione), senza che si verifichi alcuno scontro dialettico, il «respiro della vita» («È / il moto, sì, che / mette in relazione / con le cose e… fa / presenti le distanti / e le vicine subito / vacanti», Piccola colazione), attraverso quella «operazione fondamentale di riconoscere ed eludere» che Ferruccio Ulivi tempestivamente indicava come istanza di Ruffilli fin da Quattro quarti di luna. Cogliere recto e verso di ogni cosa, che – come dimostra la contestualità di vero e immaginato – mai è data unilateralmente e irreversibilmente: questa confluenza di due in uno è l’essere dato che viene reso da Ruffilli sul filo sottile di un ossimoro esteso che incorpora una opposizione senza conflitti. Vale a dire, al di là dei canoni della logica, sugli esseri e sui fenomeni domina il «principio di contraddizione», cioè domina la contraddizione come misura dell’unità. Una contraddizione che non si dà con lo scorporamento di segno e senso, che non inscena alcun dissenso nei confronti dei significati condivisi. Nella prospettiva della coniunctio oppositorum, «col sogno dell’accordo / in perfezione» (ancora in Piccola colazione), è dato addomesticare la resistenza della realtà che si agita e «respira» al di sotto dell’evidenza.