A PROPOSITO DI “CAMERA OSCURA” DI RUFFILLI
La foto si pone come un black-out rispetto alla nostra misurazione del tempo. Peggio, essa costituisce una sfasatura rispetto a quel tessuto di convenzioni dentro le quali il tempo semplicemente vissuto viene poi razionalizzato, reso “esplicito”, affidato a una macchina che lo misura. La foto disturba e mette in stato di choc il modo stesso che noi abbiamo di percepire il tempo, quello che consideriamo il flusso degli eventi naturali. Ora proprio questo spiazzamento all’interno del nostro modo di sentire il tempo è il movimento che si pone in questi testi di Paolo Ruffilli, in Camera oscura (Garzanti Editore), tra la trascrizione dell’istantanea e il diffondersi del commento. Abbiamo nella foto, da una parte, un tempo di tipo assolutamente puntiforme e, dall’altra, un tempo più “diffuso”, alonato e armonizzato nella circolarità in cui si colgono tutti e tre i momenti, passato, presente e futuro. Lo scontro di questi due tempi, sulla pagina, crea il paradosso dell’attimo: sia nella direzione della presenza che si nega nel suo porsi, quale annichilimento in cui l’attimo nel suo stesso apparire già si distrugge, sia anche nella direzione del “punto perenne”, una specie di falsa eternità dell’attimo allo stato puro. La bravura di Ruffilli sta nel non chiudere il circuito; nel lasciare aperte, appunto, le due direzioni di cui si diceva. Con l’effetto di uno spaesamento, tra perplessità e sconcerto, che è pur sempre il quoziente massimo della poesia. In queste pagine la parola, da una parte ridotta a mimesi dell’afasia, dall’altra è tesa a ripristinare le proprie ragioni, anzi “una” ragione, e a cogliere il mondo e i rapporti interumani. E c’è una presenza continuamente ripullulante di “essenze” (mentali e spaziali, cromatiche e foniche) in un collage corrosivo con “fatti”, “cose” e “persone”. Si genera da ciò un’energia coinvolgente dentro questa ricognizione di gesti, atteggiamenti, pensieri dell’io e delle molte presenze individuali, sempre marcate affettivamente, che lo attorniano. L’altro diventa presente nei molti altri, si riassume come fatto di etica, un’etica perplessa eppure “instante”, e alla fine implacabile. Sommessa parsimonia e severità presiedono all’operazione. Ne deriva un tessuto espressivo che sceglie la linea “bassa”, ma che è fratto e sospeso e ben altro che assestato all’univocità, ricco di una sua del tutto originale tensione immaginifica.