UN’ANTIBIOGRAFIA DI FRANCO DIONESALVI

UN’ANTIBIOGRAFIA DI FRANCO DIONESALVI

Quando appresi dell’esistenza di Franco Dionesalvi ebbi un po’ timore per il roboante cognome, che richiamava religioni di tutto il pianeta, non solo monoteiste. Lo immaginavo come Giove armato di saette, pronto a colpire per capriccio tutto e tutti. Invece il nome richiamava la libertà del 1848. Un personaggio alla Victor Hugo, pronto a immolarsi per primo, e lanciarsi disarmato sulle guardie di Luigi XVI. Ma il maggiore timore reverenziale derivava dalla sua ampia cultura poetica. La leggenda lo vedeva a Firenze, terra di Dante e Machiavelli, Savonarola e Poliziano. Egli vedeva nel percorso da Poggio Bracciolini a Lorenzo il Magnifico la fioritura delle arti e dei suoni. Poi, in quell’evo dei Settanta, fiorì la scarmigliatura degli indiani metropolitani, un po’ discepoli di Tolstoj e un po’ di Mazzini, con coloriture da America Latina ( Ernesto Guevara) e Sud Est Asiatico (Ho Chi Minh). Lo conobbi da un rigattiere, lungo la strada di Campora San Giovanni. Me lo presentò proprio il santo, che allora era di poche parole. Da allora divenni il biografo di Franco, scrivendo di nascosto le sue gesta. Oggi, a distanza di quasi quaranta anni, rivelerò la sua vita artistica d’eroe.  Franco Dionesalvi, a metà degli anni Settanta, era un poeta immerso completamente nel laboratorio teatrale di Jerzy Marian Grotowski, ma attento nell’osservare la poesia americana del dissenso della generazione Beat degli anni Cinquanta. Scrivono di viaggi mentali – anche mediante la sperimentazione psichedelica di droghe quali l’LSD – e fisici, in lungo e in largo attraverso le strade degli USA, come ad esempio Sulla strada di Kerouac, scritto viaggiando in autostop da una costa all’altra degli Stati Uniti. Dionesalvi in quegli anni divora libri, li assimila e li trasforma a sua immagine e somiglianza. Nato a Cosenza il 18 febbraio 1956, Dionesalvi comincia a scrivere poesie da subito, appena impara a scrivere. Lui vive una parentesi leopardiana, lontano dai giochi e dal dialetto calabrese, che poi recupererà in alcune sue poesie più riuscite. Della sua indole i versi riecheggiano Federico Garcia Lorca. Mettiamo a confronto i versi andalusi del poeta spagnolo: “Bambino lasciami, non calpestare / il mio biancore inamidato. Il cavaliere s’avvicina / suonando il tamburo del piano. / nella fucina il bambino / ha gli occhi chiusi”. Con quelli del poeta calabrese:  “A volte di primo mattino / mentre mi avvio a piedi / e il fondale di gente case sta distratto, / mi ritrovo a non ricordare più / dove sto andando cosa faccio / di lì a fra poco, / perfino se ho legami e quanti e quali. / Allora, e non so dire / perché e donde e come / mi sorprende la gioia. / Mi invade ed è pesante, / sì che barcollo un po’ e mi arresto; / ma un solo istante, / ché poi guardo e rido / e corro”. Fondamentale è per lui l’incontro con Raffaele De Luca, che lo spinge a leggere i Beat e la Neoavanguardia italiana. Insieme ai Surrealisti, saranno le influenze fondamentali dei suoi anni di formazione. Frequenta il liceo classico a Cosenza. Poi va a Firenze, città scelta per vocazione artistico-letteraria, ma anche per ricongiungersi alla sua passione calcistica infantile, la Fiorentina. Si iscrive a giurisprudenza. Diventa comunista, ma senza mai prendere tessere di partito. Si riconosce piuttosto nel Movimento, partecipa al ’77, entra negli “indiani metropolitani”, di cui condivide l’approccio umanista e surrealista all’impegno politico. Dopo la laurea, torna a Cosenza, dove frequenta per qualche giorno i tribunali. Ma se ne allontana indignato e fonda la cooperativa di
sperimentazione teatrale “Nuova Immaginazione”. Questa vicenda, durante due anni di viaggi in Europa e visioni, resterà travolta da un amore finito. E gli darà ispirazione per scrivere il romanzo “La maledizione della conoscenza”. È obiettore di coscienza, svolge il servizio civile alternativo al militare inizialmente fra gli assistenti sociali; poi il suo attivismo genera insofferenze, e viene trasferito in un teatro. Consegue una seconda laurea, in pedagogia a Salerno. Insegna per un anno nelle scuole medie superiori, poi lascia. Si dedica a scritture teatrali, che mette in scena il Centro RAT -Teatro dell’Acquario, e a collaborazioni giornalistiche con televisioni e quotidiani. Con Angelo Fasano e Raffaele De Luca fonda “Inonija”, rivista di poesia che vive per dieci numeri, raccogliendo attenzioni e consensi, e poi chiude con la scomparsa dei suoi due giovani compagni di strada. Giacomo Mancini, che è divenuto sindaco di Cosenza e lo aveva conosciuto a Telecosenza, lo vuole al suo fianco nella nascente giunta. Gli dice di no per due volte, perché assumere un ruolo di “potere” gli sembrava del tutto estraneo alla sua formazione e alla sua vocazione. Dopo tre anni e al terzo invito accetta, diventa assessore alla cultura di Cosenza: è il 1997, lo resterà per 5 anni. Sono anni di grandi fermenti e di rinascita culturale della città; è artefice, fra l’altro, del Festival delle Invasioni, della Casa delle Culture, del mensile “Teatro Rendano”, di variopinte estati in città. Soprattutto propugna una cultura che spinga al cambiamento, e all’emancipazione e al riscatto sociale delle persone più emarginate. Nel 2002, dopo la morte di Mancini, la nuova sindaca gli offre una consulenza. Percepisce il cambiamento di clima, il ridimensionamento della progettualità socio-culturale, e rifiuta. Gli viene offerta una consulenza a Rende, la accetta attratto dall’idea di lavorare in una città “nuova”, in cui sono vivi tutti i problemi della post-modernità. È l’ideatore del Museo del Presente, un luogo in cui il presente si mette in mostra e spinge a una riflessione critica a partire da sé stessi. Frattanto decide di frequentare il dottorato di ricerca a sociologia, per approfondire scientificamente le tematiche che aveva affrontato empiricamente negli anni dell’assessorato. Pubblicherà poi la sua tesi di dottorato, “Diritto alla cultura e politiche culturali: le teorie di una prassi”. Viene anche nominato consulente alla cultura della Regione Calabria. Ma dopo nove mesi l’assessore regionale vuole imporgli una candidatura politica: rifiuta, e si dimette sia dalla consulenza regionale che da quella del comune di Rende. La libertà non ha prezzo, e alla soglia dei cinquant’anni si ritrova a ripartire daccapo. Comincia a scrivere un elzeviro per il Quotidiano della Calabria, il “sombrero”, che conquista una fascia crescente di ammiratori, diventa giornaliero e passa in prima pagina. Saltuariamente collabora con l’Università della Calabria e l’università della Basilicata. Dal 2014 torna ad occuparsi della sua creatura, il Festival delle Invasioni, in qualità di direttore artistico. È redattore di “Capoverso”, semestrale di poesia. Dionesalvi alla fine del 2017, cambia ancora la sua vita e torna all’insegnamento, nelle scuole medie superiori . Si trasferisce a Milano, e si rimette in gioco a sessanta anni. Possiamo dire che, in questa società del 21° secolo, la realtà gli sta stretta. Da visionario lettore di Isaac Asimov avrebbe immaginato un evo nuovo, un’utopia campanelliana. Le sue poesie sono tradotte in Polonia e negli States, con riconoscimenti internazionali; ma la sua esistenza approda in nuovi orizzonti. Con Guido Oldani, Giusy Cafari Panico, Giuseppe Langella, Valentina Neri, Alice Serrao e Massimo Silvotti pubblica un nuovo manifesto poetico, con approdo a Mursia, che pubblica “Luci di posizione. Poesie per il nuovo millennio”. Come avvertono i promotori, «il Realismo Terminale è una poetica planetaria: vale per Milano come per Shanghai, per New York come per Lagos, per Città del Messico come per Karachi. È l’espressione del mondo d’oggi, dei grandi agglomerati urbani, straripanti e caotici, dove si ammassano montagne di oggetti e milioni di persone: nuove torri di Babele, tecnologiche, mediatiche, virtuali, trionfi parossistici dello spirito prometeico. Perciò, il Realismo Terminale non poteva che nascere in una metropoli: nella fattispecie a Milano, quella che già al catanese Verga, reduce da Firenze, apparve “la città più città d’Italia”. Milano – non c’è quasi bisogno di ricordarlo – ha tenuto a battesimo molti movimenti che hanno scandito la storia della letteratura moderna: è stata la culla del Romanticismo, poi della Scapigliatura, quindi del Futurismo. Anche nel secondo Novecento, ha dato vita, fra l’altro, al “Verri” e alla neoavanguardia, a “Niebo” e alla “Parola innamorata”. È sempre stata, insomma, il centro propulsivo delle esperienze letterarie di volta in volta più avanzate». Torniamo al Dionesalvi uomo di teatro ironico e sferzante con gli amici, alla Cecco Angiolieri. Lui inventa situazioni surreali e paradossali. Smonta e rimonta giocattoli di parole. Salva la lingua che altri hanno rimosso come una vergogna dei provinciali, personaggi di Giovanni Verga. Di Carducci prende l’umore sanguigno e lo modella nelle valli irregolari del Cosentino. Ma potrebbe volare in altre contrade e scoprire con il suo spirito bambino la bellezza della sua vita, a dispetto delle minacciate guerre dei Mondi.

Filippo Senatore

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