LA POESIA DI VITTORINO CURCI
A dispetto di teorie più o meno romantiche, che si fatica a debellare e che vorrebbero collocarli nella categoria dei sognatori o tra i frequentatori del mondo delle nuvole, i poeti degni di questo nome hanno da essere teste pensanti. Il verbo ‘debellare’, però, non ci piace particolarmente, evoca conflitti, contiene il sostantivo bellum ed è sinonimo di sconfiggere, distruggere, annientare, non si addice ai poeti, perlopiù gente pacifica. D’altro canto, si sa, nel bene o nel male le teorie governano il mondo e allora tocca lasciarle ai teorici, salvaguardando i sogni, però, che di sicuro aiutano a campare, come la poesia. E comunque la si giudichi questa defettibile ‘cosa’ che chiamiamo poesia, rimane una risorsa espressiva inalienabile e quanto mai necessaria per un’umanità emotivamente stitica, tendente a silenziare e anestetizzare le emozioni. Tra le teste pensanti col “vizio” della poesia, spicca la figura di Vittorino Curci, (fuori)classe 1952, nativo di Noci, nella Murgia barese. Curci ha pubblicato una ventina di raccolte poetiche, due testi narrativi, diverse plaquette e fogli letterari. Ha fondato e diretto negli anni ’80 il periodico di poesia «Bosco delle Noci», inciso circa cinquanta dischi e promosso la cultura in tutte le sue forme, continuando a restare nel Sud, in quel suo paese che sfiora le ventimila anime, quelle stesse che in un tributo di affettuosa stima lo hanno eletto a primo cittadino. In questa sede ci occuperemo delle ultime tre raccolte poetiche di Curci, pubblicate nell’arco di sei anni dall’editrice milanese La Vita Felice: Il pane degli addii (2012), Verso i sette anni anch’io volevo un cane (2015) e Liturgie del silenzio (2017). La trilogia, rappresentativa del periodo maturo di Curci, affronta temi già considerati dall’autore: la metafora della vita, lo scavo interiore, la tenace ricerca di un punto di vista altro, diversificato, la frenetica sfida al luogo comune che lo vede sot-terraneamente ancorato e fedelmente proteso verso una personalissima linea poetica, come evidenziato da qualche critico. Un’architettura verbale, la sua, che necessita di una costante ricerca e verifica della parola, fino a spingersi, come vedremo nell’ultima silloge, ad un’azzardata sfida al vocabolario con il ricorso a sostantivi inesistenti e bizzarri neologismi che ‒ ancora una volta ‒ spiazzano il lettore fino a disorientarlo.
Il pane degli addii
Ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima… (Cesare Pavese)
Torna a farsi leggere un inconsueto e sorprendente Vittorino Curci con una silloge poetica densa e delicata: “Il pane degli addii”, edito da La Vita Felice di Milano, ventesimo nella collana “Le voci italiane”. La metafora de “La vigna” di Pavese bene si presta ad un approccio con il testo di Curci che, in sostanza, ne ricalca alcuni contenuti profondi con la riproposizione di un tema molto caro e familiare alla letteratura di tutti i tempi: lo scorrere del tempo, il passato che recita sul palcoscenico dei giorni a venire nel dialogo mai interrotto tra i tra-passati e i passanti. La mente, a volte, fa strani giri, insolite congetture; così, il testo di Curci, chissà per quale meccanismo assurdo (mica poi tanto) può rimandare, mutatis mutandis, all’Antologia di Spoon River. In fondo, non è forse una Spoon River il suo viaggio introspettivo, il tentativo, esperito da Curci, di recuperare tutto quello che è concesso “sentire” ai nostri corpi e ai nostri poveri cuori nell’arco di tempo che ci tocca essere…o non essere? La sua posizione privilegiata di spettatore sospeso in un nonluogo «la città dei lapidati», «il precipizio del futuro», «l’atlante delle tue passioni», «lo spazio dettato dal vento», «le quinte del cielo», «il pozzo delle spiegazioni», «il buco nero che dispensa il pane degli addii»… e l’elenco potrebbe proseguire, gli consente facilmente di sbobinare il nastro e rivedere il film della vita, di raccogliere i ferri e di tirare le somme senza, tuttavia, apportare alla pellicola tagli o potature di sorta. Ri-vedersi per ri-vivere, allenandosi, così, ai distacchi della vita «con esercizi di trasloco e armistizi fragili». «La scienza dei commiati», per dirla alla Mandel’štam; quel «definitivo abbandono di qualcosa che è stato nostro e ci ha nutrito»: eccolo il pane degli addii, e non è casuale che Curci abbia scelto proprio il pane in quanto alimento per eccellenza. Beninteso, l’abbandono di cui parla potrebbe non essere così definitivo, il distacco risultare meno traumatico: basterebbe serbarlo nel cuore quel “qualcosa” o quel “qualcuno”, sistemarlo al posto giusto, magari in un cassetto segreto dell’anima e tirarlo fuori al momento opportuno, quando la malinconia viene a farci visita, quando ci massaggiamo il cuore con un’immagine della nostra infanzia, con quel ricordo buono che, istintivamente, ci fa chiudere gli occhi e azionare il sorriso, quando ci regaliamo una manciata di tenerezza e volgiamo lo sguardo indietro per vedere di nascosto l’effetto che fa. Ma allora «L’eredità è solo questa? Uno scacco delle immagini? Un imperdonabile e vertiginoso arretramento?». Può darsi, ma per fronteggiare tutto questo il poeta sembra aver individuato un antidoto, una sorta di autoterapia (non del tutto indolore), una maniera come un’altra per leccarsi le ferite: trasformare il dolore in nutrimento, in balsamo per lenire i mali dell’anima. In sostanza, restare vigili, pronti a perderle le cose, così come gli affetti (occhio agli “affetti” collaterali!). Se pensiamo che tutto possa svanire in un attimo o in un arco di tempo medio-breve, la perdita non ci coglierà impreparati, il distacco sarà meno duro. Nei versi di Curci ferita e farmaco oscillano in un processo di continui ripensamenti, slogature e propensioni nell’inconscio: un viaggio nell’aldiqua con biglietto di andata e ritorno, «si torna perché non si è mai andati via», lì dove il vento e i suoi aggettivi la fanno da padrone, dove passato e presente sono in costante dialogo «il dialogo tra un’automobile e un asino», dove non c’è distanza né assenza, dove «parole e silenzio si toccano», dove «il deserto e il mare» sono fratelli, dove i «passaggi dal caldo al freddo» risultano, paradossalmente, impercettibili e «il cuore indolenzito travasa il tempo nel cratere azzurro di un vulcano spento». Un’immagine efficace ed affascinate quest’ultima, così come molte altre che abitano il testo: immagini, pensieri, pulsioni logico-quantistiche che entrano ed escono dal campo delle possibilità, scherzano con lo spazio, mettono in discussione il tempo e i tempi, consapevoli a volte del loro essere materia, altre volte stazionando soltanto nell’intimo immaginario. Indubbiamente Curci è ad una svolta importante. Il faccia a faccia con Lei, «la Signora», ce ne dà conferma: ci si arriva tutti prima o poi al suo cospetto, tanto meglio arrivarci da vivi, «noi, morti al passato», considerato che «Se la morte ci bracca lo fa per il nostro bene, per farci varcare il confine con un brevetto da aviatore». Del resto, cominciamo a morire nel momento stesso in cui veniamo al mondo. La vita e la morte seguono la medesima traiettoria. Non è così? Collezioniamo piccole morti nell’arco di tutta una vita: ci separiamo dal ventre materno, muore la nostra infanzia, l’adolescenza, ci abbandonano i compagni di classe, i nostri cari, il primo amore, il gatto, le aspirazioni impossibili, le illusioni, i luoghi amici, l’albero che ci ha fatto da ombra per anni non c’è più. C’è, però, un vantaggio in tutto questo: i nostri “morti” non possono portarci con loro, noi, invece, possiamo portarli con noi per tutto il tempo che ci resta da vivere. Poi, anche noi potremo diventare bagaglio per le vite altrui….e via morendo. Una tappa significativa nel percorso letterario di uno tra i più apprezzati e singolari poeti attivi in Puglia, ormai riconoscibile nell’ampio panorama nazionale: un libro di “passaggio”, abbastanza distante dai precedenti lavori, anche in termini stilistici: meno criptico, più “abbordabile”, più a misura di lettore, non per questo meno denso e corposo degli altri.
Verso i sette anni anch’io volevo un cane – dal diario di un logonauta
Chi non ha desiderato un cane verso i sette anni? Un po’ tutti, diciamolo, c’è chi non ha mai smesso di desiderarne uno. Dunque, cosa c’è di straordinario in questo nuovo titolo di Curci (La Vita Felice, Milano 2015)? Nulla di più banale, consueto, anonimo. Eccola la singolarità: lo straordinario risiede nell’ordinario, in una delle tante frasi raccolte dall’usuale vocabolario quotidiano e raccattata dalla memoria pura e incontaminata di uno scolaro di sette anni: «Primo ottobre nel cortile della scuola. / collane di bambini intrecciano / trame di vendetta […] i nomi potrebbero tornarmi» (giovedì 2). Sprazzi, lampi di memoria, volti, luoghi, voci, perché «le voci non si dimenticano», oggetti che resistono al tempo: «le fascine per la caldaia / una paletta di ferro, un pallone / un grembiule spiegazzato»; quelli, invece, che il progresso ha scippato e portato via per sempre: «le bottigliette di gazzosa con la pallina», «le sputacchiere del cinema», «il catino di smalto» e poi un frenetico susseguirsi di immagini, un almanacco di eventi legati ora alla sfera emotiva più intima, ora a quella più epidermica dove albergano e si alternano, di volta in volta, momenti di ordinaria felicità, dolori, umori, amori. Parola d’ordine logos «l’espressione tramite suoni linguistici del pensiero», nella più alta accezione platonica richiamata sul risvolto di copertina, mentre, per scomodare Heidegger, raccolta, silloge. E ancora logos come legame, relazione. Questa la password, la chiave d’accesso al database, al calendario senza tempo che Curci ci invita a sfogliare e percorrere in lungo e in largo: quattro mesi a cui corrispondono le quattro sezioni del testo, ma potrebbero essere quattro lustri, quarant’anni, una vita. Omessi gli anni, così come indefiniti sono i mesi e le stagioni in cui si muove il ‘logonauta’ nel «penoso ritmare dei secoli», solo il tempo può far perdere la misura del tempo, lasciando come flebile indizio un banale giorno 21 di un qualsivoglia, anonimo venerdì: «capiremo più avanti se sarà un giorno memorabile». Nitido, anche in questa raccolta, il richiamo a Pavese. Curci ne ricalca – con i dovuti distinguo – lo stile palesemente e pavesemente riconducibile a “Il mestiere di vivere”: il genere diaristico, i pensieri risicati e incisivi, il ricorso alla forma dialogica, la negazione delle immagini tradizionali, una forte presenza dei temi quotidiani, quel suo misurarsi con se stesso – mentre accarezza e tasta la propria solitudine – attraverso un codice che tanto assomiglia a una presa di coscienza, la presa in carico dello scorrere del tempo che, inevitabilmente, invita a fare i punto, il bilancio di una vita: sabato 17 “un pomeriggio di sabato con la stessa / gomma per cancellare e gli stessi errori / viene il dubbio che il tempo non si stacchi / dai nostri poveri corpi e che siamo qui / per farcene una ragione – io però / mi accontento di quello che trovo, delle / due tre parole che mi restano nel sangue”. Il cantiere è aperto, il cartello ‘lavori in corso’ non è mai stato rimosso, resiste, anche se ormai liso e ingiallito dallo scorrere del tempo, le ruspe continuano a scavare in un silenzioso fracasso che rimesta i detriti dell’anima accatastati giorno dopo giorno, stagione dopo stagione; galleggiano nell’aria le parole di Curci – alla pari dei sugheri lorchiani – in un tempo e in uno spazio indefiniti, così come emergono le vite altrui pronte per il riscatto dall’oblio, in una sorta di riciclaggio che restituirà loro nuova linfa, altre fattezze: «vite silenziose, mai pronunciate, mai scomparse / dal mio sguardo – oggi, sabato, non piango / né maledico ciò che è stato, sono / un mentore sbadato che ha forzato la sorte / per cercarvi nel cimitero industriale del paese» (sabato 29) . Sullo sfondo «l’alfabeto delle murge / prosciuga la scena di suoni / va ad eclissarsi / nel tempo-luogo da cui leggete». La Puglia degli alfabeti, come quello «mendace della pioggia», è interlocutrice privilegiata, molto presente in questa silloge di Curci, nido materno e matrigno, terra così amata da volervi fuggire, come quel mercoledì 3: «e ora? che faccio? della mia terra mi riempio le tasche e parto? […] non sei stato forse tu a dire / che il saggio è colui che dà un nome / a ogni filo d’erba, a ogni petalo, a ogni foglia?». Un Sud che si delinea non solo come dimensione territoriale e paesaggistica, ma anche come metafora di assenza, separatezza, agonia, un Sud che non ha definitivamente chiuso i conti con le sue ataviche rese, che tolgono l’aria e tornano in gola : «qui, nelle campagne / spietrate di una terra triste arresa / al sole, una marea multicolore scombina / l’alfabeto dei miracoli, (ancora un alfabeto) si vive alla giornata / confidando negli altri per puro istinto / solidale… qui, sulle vie del sale, è tutto / uno stormire di cartelle cliniche, una penuria di fantasia perché si respira male». (mercoledì 14). Se è vero com’è vero che siamo il prodotto della nostra infanzia, questo libro di Curci ne avvalora la tesi. Emerge netta l’esigenza dell’autore di sottoporsi, con una manovra di transfert, a una piacevole regressio che lo riporta a rivedersi e confrontarsi con questo piccolo essere che si aggira ora in probabili scenari domestici: il «sottoscala al civico 57», ora in austeri luoghi di aggregazione: «nel corridoio della scuola», sotto gli sguardi vitrei e minacciosi degli «uccelli impagliati». E per quanto si sforzi, Curci, ricorrendo a funambolici esercizi linguistici e persino al minimale uso delle vocali (si veda la ‘I’ dedicataria della silloge) a camuffarle e a celarle dietro «un fruscio di flanella», a un «uomo di spalle», ad un pronome personale, si delineano e risaltano netti i profili delle figure ‘certe’, di quegl’imprescindibili punti di riferimento che tanto hanno contato e che continuano a contare parecchio. «Altro giro altra corsa» recitava monotona la voce nasale e metallica dei giostrai alle feste patronali. Così, le visioni di Curci scendono dalle pagine e ne montano altre per rincorrersi impazzite sui seggiolini del tempo. Sulla pellicola di celluloide scorrono i fotogrammi delle stagioni della vita, l’autore vi è immortalato nelle pose più disparate, ora nel ruolo di attore protagonista, ora di spettatore, ora di comparsa, mentre l’umore oscilla in un continuo flirtare tra eutimia e disforia. Le espressioni tradiscono il disagio: si aggira impacciato e insicuro, si osserva, tentenna, non sempre si piace, a volte si compiace: «faccio un passo e torno / indietro a vedere come sarebbe. / sono contento che qualcuno abbia pensato /a questo, cose così, memorie contrapposte, / inserti e simboli di conio / crepuscolare, piccole / catastrofi, grumi di / verità che ci sopravvivono». E in questo secrétaire, in questo scrigno profondo di ricordi, in questo spazio a dimensioni multiple il logonauta prosegue il suo viaggio, delinea la mappa esatta degli ostacoli da scavalcare, delle fratture da sanare, delle interruzioni, dei vuoti a perdere. Fedele alla sua modalità, Curci si conferma poeta originale e borderline (per usare una sua espressione), testimoniando, grazie all’inquieta lucidità che lo caratterizza, l’evoluzione del suo personale mestiere di vivere e di scrivere.
Liturgie del silenzio
Se è vero che «la parola è un’ala del silenzio» (Neruda), è anche vero che con una sola ala non si può volare. Solo la poesia può farsi ala e venire in soccorso del silenzio, perché la poesia è ascolto, e l’ascolto può far volare il silenzio .«Ascolterai di tutto: orologi a corda, bestemmie, / i ragazzi delle case popolari, il rancore / dei sommersi, l’ardore di chi affronta il deserto seguendo la rotta delle parole inappellabili». Si celebra il silenzio nell’ultima raccolta poetica di Curci, una liturgia per l’appunto, la liturgia del silenzio in antitesi alla liturgia della parola, la parte della messa che segue ai riti di introduzione. Difatti, ogni rito introduttivo è omesso da Curci, nessun preliminare, nessun orpello precede la parola, la velocità del messaggio è rapida, il verso libero ne facilita l’immediatezza, il lettore è catapultato a gamba tesa nel testo, quasi alienato dalla rapidità delle sequenze. Eppure una cadenza esiste, esiste un ritmo e un tempo che rompe il silenzio e scandisce i passi delle quattro sezioni che suddividono il testo; è il medesimo filo che accomuna questa alle precedenti raccolte di Curci, incerto Teseo nel labirinto del passato: «le lingue raccontano viaggi / il passato cammina sulle sue gambe». Non nostalgia, beninteso, ma memoria recuperata, non un archivio del rimpianto, quanto piuttosto la testimonianza di una fede nell’antica e solidale catena degli esseri: «Siate pronti. non è detto che l’anno / sia già cominciato. gli uomini chiusi pendono / da una qualsiasi ora del giorno. parlano al passato / ma non è questo che volevano». È il viaggio della vita, l’antica metafora a cui l’autore ricorre per palesare la continua ricerca di una condizione altra, una fuoriuscita da se stesso che gli consente di osservarsi ‒ nel tempo ‒ da diverse angolazioni, dai molteplici punti di vi(s)ta. Un personaggio fuori campo, che ha funzioni di osservatore esterno, partecipa all’azione senza coinvolgersi direttamente nella scena: una figura smagata e giudicante che ha compreso il gioco e che tuttavia assiste al compiersi dei destini senza intervenire più di tanto, consapevole dell’inarrestabilità del viaggio, dell’immodificabilità degli eventi. Difficile non riconoscere nel poeta lo spettatore narrante, appartato e sfuggente, la figura sulla quale egli proietta il proprio disagio, i propri esorcismi, il proprio destino, attraverso l’esercizio del silenzio; non prima, però, di aver compiuto un’ immersione «nei giacimenti già esplorati della parola» fino a spingersi, con un insolito gioco linguistico che predilige la sonorità, a sperimentare funambolismi verbali tramite il ricorso a vocaboli inusuali e ricercati come ‘ciprigna’, ‘falotico’, o espressioni inesistenti come vèrbate collura (per dire «addormentarsi nel sonno della terra») o come betànnia ìdomab (per indicare «la parca dimora del giusto»), fino a coniare l’ottomana (la settimana di otto giorni). Curci così si riconferma uomo del suo tempo, un tempo affollato da cronache e passioni che egli ha tradotto in qualcosa che solo a prima vista può risultare quasi una congerie di immagini slegate, spezzoni percettivi, materiali accostati arbitrariamente tanto da apparire come ruderi emotivi, ma che una seconda e attenta lettura restituisce a un senso profondo, capace di legare intimamente il tutto in una visione del mondo e di esprimere con modalità superbamente allusiva le grandi tematiche esistenziali: “ho messo il vestito nuovo / per sentirmi altrove come uno / che viene fuori dal niente e prega / in una lingua sconosciuta. / quello che ci insegna la voce / è un piccolo passo immeritato. / ne sanno qualcosa i morti. / i vivi si accontentano di essere / ancora vivi”.
Incroci