IL TEMPO IN PAOLA PAROLIN

IL TEMPO IN PAOLA PAROLIN

E uscire alfine (Anterem Edizioni) di Paola Parolin è un poemetto sul tempo come labirinto. Quel tempo che, pieno di tacche e segni, non consegna però nessuna chiave per essere decifrato e in cui nessun momento è maggiormente significativo di un altro. I segni, anelli concentrici, si richiamano l’un con l’altro, ma non offrono appigli al decifratore. Il tradito, gli amori, gli amici, le folle non sono figure concrete, ma simboli, al modo in cui li rilancerebbero i tarocchi, diversi in contesti diversi. Le promesse non sono ancora divenute cose accadute, i ricordi sono scissi, le domande si accumulano come rifiuti. Nessun disegno corrisponde nella mente alla mole di quanto recepito, di quanto letto nei segni, eppure proprio la mente dovrebbe legare, dovrebbe disporre in un ordine. Maggiormente percorribile la via che esclude i significati non utili “se il vuoto cosmico è / – soprattutto non nero –” o che procede per via di ipotesi “se balena uno sguardo / il secondo diviso un milione di volte”, in cui poter scegliere di calare sul tavolo, nel gioco, le figure più vicine, solidali al proprio sentire. Costruzione di un album del tutto personale, che riesce a farci visualizzare il soggetto che scrive. Interessantissimo diviene, allora, per il lettore, farsi a sua volta avvolgere dalle immagini che si susseguono sulle pagine, poiché per niente lineari sono le associazioni che le legano. Esse sembrano ricavate da un collage, ritagli franti e nuovamente accorpati “una raggiera di righi / da un foro centrale / specchio o cervello malato”. La stessa Paola Parolin ci guida in questo album: “spicchi taglienti / immagini distorte / un unico pensiero scabro / si rannicchia nel vuoto / e ancora”. Non solo le immagini, però, anche la parola assume una sua alterità che la rende “dissociata / fuori dal mondo”. Il viso appare non riconoscibile e lo sguardo perduto: l’identità è un problema. Ma la si può rincorrere nell’inesausta volontà di guardare, di cercare la bellezza, nel desiderio di penetrare e oltrepassare anche la forma. Certamente travolgere il costituito per ripristinare l’inconosciuto è per Parolin la modalità con cui giungere al vero. Il vero, per lei, coincide col verbo originario. In un recinto sacro, in un bosco, nell’infanzia, in un museo, in un giardino, lo sguardo erge le sue scenografie che l’io collega in un montaggio di fotogrammi virtuali: esse appaiono sbiadite come se provenissero dal passato, quello comune, quello in cui siamo immersi: il passato registrato in cui crocifisso e narciso possono occupare due caselle contigue senza che si sollevi alcuna perplessità in merito al legame logico: essendo questo assicurato dal fatto che si tratta di materiale d’archivio: in qualche modo pertiene a un medesimo oggetto. Eppure, a partire da ciò e forse proprio per questo, Paola Parolin, nella prima sezione del libro, intitolata “Vero viso vero nudo”, colleziona i frammenti della sua asintattica narrazione, quasi priva di verbi, ma dove ogni sostantivo, spesso astratto, aggancia un attributo che schizza l’identità dell’autrice: “disastro incombente passione sopita comunicazione interrotta”. Con la sua collezione di oggetti-immagine la poetessa può posizionare nell’insieme che le compete quel centro oltre il quale lo sguardo non penetra, i suoi strumenti: “il deserto per mettersi a nudo / per mascherarsi la città”, lo specchio umanizzato dall’immagine che riflette. Strumenti che le consentono di accedere allo spettacolo proiettato dalla sua interiorità: essere nel bosco, ascoltare le voci, percorrere i sentieri tortuosi. Le storie si rincorrono, intrecciandosi, ma sono poco più che indicazioni, le quali hanno il potere di ammaliare e di far smarrire poiché irriconoscibili e al tempo stesso conosciute. Bisogna mantenere l’attenzione viva per non far spegnere una simile lampada magica, cercare un ordine all’interno della confusione. E che sia ciclico il percorso ce lo conferma la stessa Parolin, poiché lo specchio non riflette che il viso di colei che ha le visioni: ridotta a pura immagine e sgranata, accumulo di frammenti non ricomponibili. Nella seconda sezione, “Uscire alfine”, sembra essere lo spazio ad assumere un ruolo da protagonista. Uno spazio quasi materico, pesante come una cappa. Si può quasi credere che il miracolo di uno sviluppo lineare, di una danza in uno spazio sferico riesca, “dimenticando la sequenza dei giorni” e con una certa allegrezza. Spazio scenico in cui, tuttavia, ben presto cala il sipario e la stanchezza s’impossessa del soggetto lirico. Scorci familiari, coniugali, i cui fili intrecciati chiamano in causa la storia, quella che contiene tutte le storie. Pur se, appunto, è un altrove: da uno stato frammentario ci si trova immersi in una scena unitaria senza che si sia in grado di dire in che modo sia accaduto. Addirittura, la presenza di un decalogo di azioni, simile a un foglietto delle istruzioni, fornisce la soluzione per uscire dal labirinto in cui spazio e tempo sono un miraggio, sono indistinti. Disincanto, stupore, dolore a ogni svolta, come accade, appunto, nel più tipico dei luoghi da cui è impossibile uscire e dove il meno che possa accadere è di perdere qualsiasi riferimento per procedere. Lo spazio si metamorfizza assumendo in questa raccolta, che potremmo definire di barocca visionarietà, una deformazione costante: fiume diventa casa che diventa acqua che diventa giardino che diventa città. Storie personali divengono collettive. Su ogni cosa si proietta un profilo, un disegno, un progetto, i quali vengono travolti dall’incessante rimescolio del visto: non si riesce a lasciare un segno in siffatto mondo. Che siamo su una giostra, la quale consente solo un percorso circolare, ci diviene presto chiaro. Ma la numerosità dei giri consente di mettere a fuoco dettagli interiori, psicologi: s’infittiscono così le definizioni del sé: ‘sicura’, ‘rinchiusa’. Di certo, il silenzio impera, rotto solo dal suono del vento. È nel silenzio che le voci di tutti possono essere ascoltate. Il vortice in cui tutto collide forse non nasce che dal punto di intersezione in cui lo spazio e il tempo per un frammento di secondo riescono a sovrapporsi, e l’immagine precisa che si coglie è finalmente quella in cui tutto coincide col sé. Anche sulla retina del lettore finiscono col fissarsi alcuni oggetti, che sono co-protagonisti nel racconto: rami, radici, fiume, città, pietre, acqua, silenzio. Oggetti disseminati e ritrovati durante “un lungo viaggio / o nel fondo di un bicchiere” che sono luoghi equivalenti, nei quali, ora lo sappiamo, emerge la bellezza che salda in sé logica e fede.

Rosa Pierno

Postfazione

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