LA VITA IN VERSI DI CARLA BARONI
“Oggi comincio un diario un po’ speciale, / lo scrivo in poesia perché le rime / sono per me la vita, il mio potere / di vincere la noia e dare un senso / a un’esistenza priva d’ogni gioia” (22 novembre 2004). In quest’esordio proemiale che la retorica d’un tempo indicava come proposizione all’ultima sua raccolta Scampoli di vita (The Writer), Carla Baroni professa immediatamente la sua intenzione, che si traduce in atto nella presente silloge: scrivere un diario in versi, visto che la poesia è, semplicemente, la sua ragione di vita, il suo pane quotidiano. Il suo canto – di redenzione o, se si vuole, di temporanea salvezza, di provvisorio affrancamento – sarà generato e scandito dal tempo, dai giorni, dagli affetti, dalle occasioni; e sarà schietto e autentico, come si conviene a un diario e come è subito dopo puntualizzato: “Sarò sincera senza più inventare / amori che non ho e che non ebbi / e che però mi han dato quel calore / che penso debba dare anche l’affetto” (22 novembre 2004). Vale la pena, innanzitutto, di fornire un’indicazione al lettore ignaro, o non sufficientemente esperto, dell’opera poetica della scrittrice ferrarese che ascende a una quindicina di pubblicazioni: nel suo percorso creativo ella ha tentato tutte le strade della poesia, racchiudendola per lo più in sillogi monotematiche, regolate da meccanismi linguistico-rappresentativi oscillanti dal lirico al poematico (una di esse è stata addirittura ridotta in pièce teatrale), ma comunque sempre tese alla sperimentazione di dire in versi la vita, tutta la vita; con tonalità ora serie, ora dolenti, ora giocose, ironiche o satiriche, qualche volta anche con accenni sarcastici. In questa occasione la sua poesia si manifesta, come già detto, in forma di diario, di effemeride lirica, che serba tutta intera la portata dell’immediatezza e della quotidianità degli eventi interni ed esterni. Ed è proprio nella quotidianità che s’innesta l’eccezionalità del sentire poetico; e dove, sotto un’apparente remissiva e disarmata accettazione della realtà – quella della figlia che assiste la madre ormai al termine della vita –, si cela lo sfaglio, lo scatto, la ribellione a una vita avara di gratificazioni ma non di delusioni; di ribalte e di successi, ma non di sogni e di speranze. Sono, questi versi, annotazioni, appunti poetici messi sulla carta a far memoria, a rendere testimonianza di momenti particolari: una tranche de vie che si estende dal 22 novembre 2004 al 26 marzo 2005 e che l’io lirico interpreta con sofferenza, con devozione filiale, con la corta speranza di chi sa la brevità della vita in generale, ma in particolare di quella della persona amata; e che tutto annota, con solerte e quasi puntigliosa precisione. Proprio per la sua marcatura diaristica, la silloge Scampoli di vita esprime l’unico protagonista possibile: l’io poetante, che si narra senza lezi e infingimenti, che non si fa sconti e non si nasconde; al contrario si produce al proscenio creativo nella massima chiarezza di lettura e in perfetta comprensibilità – anzi trasparenza – testuale al punto che, in questo segmento di vita e d’arte, l’aspetto più evidente, quello che immediatamente si offre all’attenzione del fruitore è la sincerità, a volte cruda, quasi spietata; e, insieme, il ripudio pressoché totale del linguaggio figurato, che spesso trama in modo fin troppo fitto tanta poesia contemporanea: segni manifesti della necessità di un atto che induce a un onesto e reale svelamento. Oltre al protagonista, sulla scena di questa silloge appare con altissima occorrenza, precisamente in ben 21 dei 40 componimenti complessivi, un deuteragonista, una figura che irrompe nel cursus diegetico, segnandone quasi imperiosamente tempi e ritmi. E quale figura più di quella della madre poteva occupare tanto spazio nella poesia (e nella vita) di questa sensibilissima poetessa se, sempre insieme e da sole, madre e figlia hanno dovuto fare i conti con l’ostilità del mondo circostante, rintuzzandone le offese o tentando di stabilire con esso un rapporto non dico cordiale ma quanto meno non conflittuale? Dunque, la madre, Rina Buroni, anche lei poetessa, della quale la nostra Carla ha recentemente pubblicato tutte le poesie in due consistenti tomi: un omaggio – non voglio tacerlo – reso con reverente amore filiale, con larghissimo dispendio di tempo, con pazienza e acribia davvero mirabili, come ben sa chi redige questa nota prefativa. E tuttavia quello tra madre e figlia è stato un rapporto piuttosto complesso e problematico, come già si evince dalla terza lirica della silloge. Si comincia con una dichiarazione d’affetto che a ben vedere è, nello stesso tempo, un atto d’amore e d’accusa: “Ti voglio bene, mamma, tanto, tanto, / molto di più di quanto tu ne abbia / mai voluto a me” (25 novembre). Questa madre è al centro della vita, riferimento imprescindibile e solidissimo ancoraggio per una figlia che quasi si annulla in lei come un’entità frammentaria e satellitare, disponendosi in una condizione di subalternità: “La mia galassia ha eternamente avuto / un astro solitario di cui ero / un misero frammento senza luce. / Il sole attorno al quale io ho ruotato / senza fermarmi, senza interruzioni / – satellite d’argilla pronto a rompersi – / è stato unicamente questa madre. (2 dicembre). Ma ora s’affievolisce la luce dell’astro materno che volge al tramonto: subentra un’oscurità inquietante, se non allarmante. Vengono meno le certezze, se alla “contorta pianta” qualcuno recide le radici: “Ora anche lei si spegne a poco a poco / e si fan scuri il giorno e la stagione. / Mamma tu sai che sei radice fonda / di mia contorta pianta…” (2 dicembre). Da qui il desiderio impossibile, venato di rimpianto: “Ma se mia madre mi guidasse ancora / sarei sempre libellula sui fiori” (6 dicembre). Invece la realtà è un’altra. Ma è sempre la figura materna a dettare, sia pure involontariamente, i ritmi e i momenti della giornata e della vita: “Così io vivo, non conosco orari, / vado a letto vestita, vagabonda / ciondolante tra due opposti poli / scanditi dai bisogni di mia madre” (9 dicembre). E c’è pure uno scambio di ruoli, un vero e proprio capovolgimento di condizione: la madre, nella malattia (o per la malattia) diventa figlia e chiama mamma la sua creatura: “Sono invertiti i ruoli, io la madre / mentre la madre è diventata figlia / così indifesa, rannicchiata forse / come un piccino nell’utero materno…” (25 febbraio). Proprio per questo la figlia, diventata madre, deve resistere: “Ora lo scopo è un altro: sopravvivere / per quell’affetto che mi porto dentro / per questa madre, sangue del mio sangue / ancor matrigna verso me che l’amo…” (20 marzo). Il timore del poi: “Il poi, il poi sarà diverso e muta / la parola alle corde del mio cuore: / più non avrà conforto la domanda / detta facendo una carezza lieve: / “Mamma, su dimmi, mi vuoi sempre bene?” / E sillabando a stento la risposta / lei non ripeterà: / “Ti voglio bene, sì ti voglio bene.” / cercando con lo sguardo il mio sorriso / troppo sfuocato a quei suoi occhi stanchi”(26 marzo). È soprattutto qui il senso della raccolta e la sua genesi, in questa lirica finale, oltre che – s’intende – nel fertile animo poetico di Carla Baroni: precisamente nella domanda e nella risposta, dalle quali emerge una richiesta/conferma d’affetto da un lato, e una rassicurante seppur faticosa replica affermativa. Un rapporto – quello tra madre e figlia – che, al di là di ogni apparente contrasto, si sostanzia di un profondo humus affettivo, necessario, sia pur in modo talvolta diverso, alle esigenze e alle aspettative di entrambe, e in loro connaturato. E devo dire, per concludere, che Scampoli di vita, contrariamente a quel che potrebbe apparire da quanto scritto finora, è opera di mirabile varietà tematica, effusa in una molteplicità di sentimenti, di momenti e di contesti situazionali. Eccone qualcuno: l’io poetante dichiara in modo ricorrente la sua solitudine (“È idra a cento teste lo star soli”- 6 dicembre), talvolta il timore di una qualche malattia; assume il sogno o l’evasione dalla tediosa quotidianità a unica possibilità di momentanea salvezza, quando non opta per soluzioni drastiche, alla Cecco Angiolieri (“Ci sono giorni che darei alle fiamme /la terra, il cielo, l’universo intero.” – 3 marzo); si affida a spunti gnomici (“Se la gente sapesse quanto poco / basta a fare felice una persona / forse sarebbe il mondo un po’ migliore” – 8 dicembre); lamenta la delusione per mancate o inadeguate gratificazioni letterarie (“Ma io son viva ed ai poeti vivi / si fa corona solo se son noti” – 9 dicembre) o per un Natale che scorre via tristemente identico agli altri giorni (“È un giorno come gli altri il mio Natale / con il lavoro solito, le stesse / cose di sempre senza sosta alcuna” – 25 dicembre); esprime un elogio per le donne che un’aberrante consuetudine della civiltà contadina – del ferrarese? mi chiedo – segrega in casa il giorno del primo dell’anno (“Questa contadina / civiltà …/ non vuole donne, le tiene segregate / in questo giorno … ” – 1 gennaio); trasforma una brinata in un bianco di favola, di bellezza incantata ma anche di dolore (5 gennaio); si sofferma a descrivere incombenze giornaliere e scene vivaci di varia umanità (10 gennaio). Potrei continuare a lungo, perché molto la silloge – generosamente – dà. La forma di diario, infine, reclama a sé uno stile sobrio, lineare, essenziale, vicino al parlato; che talvolta si fa impellente e incalzante per l’urgere del dato biografico e della necessità di dire; e che si svolge prevalentemente nella misura dell’endecasillabo e del settenario su un registro ora lieto ora (ma più spesso) dolente. Con i colori e i toni di un’interiorità cólta, vibrante, variegata, fine, creativa. Perché Carla ha cuore e canto. Doviziosi.
Prefazione