DOMUS AUREA DI EUGENIO REBECCHI

DOMUS AUREA DI EUGENIO REBECCHI

Il tόpos di questa poesia di Eugenio Rebecchi Domus Aurea (Blu di Prussia) – sebbene allegoricamente contrassegnato dalle pareti e dalle pertinenze di un’abitazione – non è un luogo chiuso, circoscritto voglio dire. Al contrario, il suo è uno spazio che tende ad espandersi, ad abbattere gli steccati affinché, nella casa, entri la luce ed affacciandosi al balcone si veda “il sole in bicicletta” mentre “(scivola) / lungo muri di cielo / colorati di blu.” I riflessi, allora, danno vita alle ombre, penetrano negli interni e la Domus diventa Aurea proprio perché dorati sono i bagliori che la investono. Più che di sfacciata solarità, tuttavia, è qui corretto parlare di chiarore soffuso, di selenica luminosità: la luna è assiduamente presente in queste stanze; la troviamo “illanguidita” che “osserva dall’alto” la sua effige riprodotta “sullo schermo del computer”, non vi riconosce la sua anima gemella e allora “si lascia andare, calante, nel buio universale”. Siamo nello “Studio” ma, presto, la incontriamo di nuovo in “Cucina”, tra un “tripudio di profumi” ed un fiume di “lambrusco scuro” ad allietare la festa della gioventù emiliana, a confondersi, “falce sottile”, eroticamente quasi, con il “prodigio di natura” della rosea lingua di una bella biondina; vigorosa sferzata di verità che fa arrivare a scrivere: “Essenziale è girare pagina credendo / che il foglio seguente sia bianco”, e ancora: “Bisogna ricominciare a vivere. . . / prima che la morte ci sorprenda, / impreparati.” La incrociamo in “Corridoio”, affaticata da un lavoro di regia che attira “troppi sguardi”; e, naturalmente, fuori, in “Giardino”, in uno “scorcio di mare” evaso dall’ombra che rispecchia non una ma infinite lune. È una guida, il nostro satellite, che ci cammina a fianco, ospitale come il poeta, e ci accende la luce mentre visitiamo i vari locali della domus. Ma non stiamo vedendo un museo: Rebecchi ci ha fatto entrare nella sua dimora perché uscissimo, con lui, all’aperto, affidandoci a quello stesso “buio di luna” cui si abbandona e, non a caso, chiudendo il testo finale dell’opera, “alimenta” la fiamma che “rischiara” e riscalda le nostre perplessità, gli interrogativi ai quali non possiamo sottrarci. Ecco, quindi, che senz’altro appropriato è quanto sostiene Paolo Ruffilli prefazionando la raccolta: egli parla di “un’istintiva tensione elegiaca che. . . ripercorre con ansia e forza visionaria il rapporto tra il sé e il mistero della vita”. Come dargli torto? È questa la percezione che resta, ultimata la visita: uno spleen dolce-amaro che lascia, però, un piacevole gusto sul palato. “E la gioia di vivere – scrive ancora il Prefatore – trascolora ogni volta nella malinconia… Ma la malinconia, ben lungi dal togliere forza, diventa una sorta di calamita che rende ancora più potente l’attrazione verso (le) ragioni dell’autenticità.” Sembrerebbe tutto detto, ma non è così: c’è un’appendice da tenere in alta considerazione. “Ancora un po’ poeta” – questo il titolo – è la risposta (e la conferma) di come il Rebecchi del nuovo millennio replica al disorientamento provocato dagli albori dell’egemonia del virtuale sul fare stesso della poesia. Dopo aver descritto le reazioni della natura alle violenze perpetrate ai suoi danni (“Anche il mare s’accorge di subire mutazioni”), l’autore si chiede: “Che fa il poeta?”, lasciando – provocatoriamente, verrebbe da pensare – inevasa la domanda. Ebbene; eccola, immancabile, anche la sua ribellione, la rivalsa dell’amore: per la donna, per la terra, per la vita: “Ho gridato / nella notte / come lupo / lontano / dal branco / … / Poi / tu. / E il lupo / ha sorriso.”. Il bianco e nero sostituito dai colori: “Ci sono rose / che non appassiscono / sul balcone / dei sogni.”. La storia virtuale rimpiazzata dalla “favola bella” da vivere insieme, da raccontare per sempre.

Sandro Angelucci

I fiori del male

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