GLI ELOGI DI FRANCA ALAIMO
È notorio come nel mondo latino l’elogio avesse un carattere commemorativo o celebrativo e una lapidaria brevità, dato che per lo più veniva scolpito sulle tombe, su stele votive o su monumenti oppure lo si scriveva sulle immagini degli antenati, per elencarne le imprese e le virtù. In epoca medievale, invece, pare che i poeti abbiano cominciato a cimentarsi nell’elogio affrontando temi più bassi, o addirittura negativi, comunque certamente insoliti rispetto al passato. E, più vicini a noi, anche scrittori e poeti come Leopardi, Gadda, Eco, hanno mostrato come, con un certo gusto del paradosso, le cose più biasimevoli, o le più semplici, cose che per la loro pochezza o banalità non meriterebbero alcuna attenzione celebrativa, possano essere fatte oggetto di lode e, argomentando alla rovescia, attraverso un’eversione dal senso comune, possano essere in qualche modo riscattate: aperto da uno sguardo nuovo, inedito, il reale viene offerto a nuove possibilità di prensione, sfaldandone la tempra monolitica e mostrandone una moltiplicazione di facce, di s-facce-ttature. A me pare che, su questo solco, sia pure con moventi diversi, sia possibile offrire una preliminare collocazione al libro di Franca Alaimo, per gli oggetti dei suoi Elogi (Ladolfi Editore), oggetti minuscoli o di poco conto (cito a titolo di esempio una stampa cinese, diversi vegetali, piccoli animali, vocali, ma si potrebbe continuare) oppure addirittura controintuitivi (tra tutti, la morte ma forse peggio, lo stupro, l’orfanità…). Facendo uso di una lingua chiara, che conduce al cuore del suo pensiero senza orpelli e senza avvitamenti, capace di elegante lirismo ma ugualmente capace di abitare le stanze fresche del parlato, anche gli Elogi di Franca Alaimo scolpiscono: sulle immagini della memoria più dolorosa, sui monumenti eretti ai miti dell’infanzia, sulle stele votive dedicate (forse con troppa, giovanile fretta) all’amore. Scolpiscono, gli Elogi di Alaimo, un proprio originale “cambio di passo” (qui sto citando uno dei titoli della sezione dedicata al tempo), il proprio sovvertimento controintuitivo, e sotto il sembiante di una poesia semplice, talora all’apparenza persino impulsiva e istintiva, ci regala (anche) una tessitura filosofica lievissima ma coerente. Ma procediamo con ordine, consapevoli che potremo sporgerci solo da alcuni tra i molteplici versanti interpretativi che offrono un sentiero al nostro attraversare. Sono partita da queste considerazioni sul genere letterario dell’elogio perché credo che questo libro vada affrontato a partire dal suo titolo, ponendo immediatamente la domanda sul perché un autore, oggi, avverta il bisogno di esprimere la propria poesia in forma di lode, o meglio per qual ragione le singole poesie che compongono questa biografia lirica debbano da noi essere lette come lodi, debbano, grazie proprio al titolo, venirci incontro anticipate da questo dichiarato portato laudativo? Se le leggessimo ciascuna per sé potremmo coglierne altri mille aspetti, ma l’autrice ce li pone in una specifica cornice. E ancora di più: il libro avrebbe potuto intitolarsi, poniamo, La vita è bella e avere come sottotitolo la parola “elogi” per indicare il genere letterario di appartenenza: invece no, Elogi è proprio il titolo, isola senza sponda tutta da esplorare. Perché? Ecco, io vorrei lasciare in sospeso questo primo interrogativo, anzi tenerlo come sfondo al discorso che tenterò di portare innanzi, augurandomi di riuscire a imboccare il sentiero giusto per tornarvi. Aprendo il libro, incontriamo subito una brevissima nota dell’autrice, quasi un’avvertenza, attraverso la quale veniamo a conoscenza del fatto che le poesie che leggeremo sono state scritte in un arco temporale che supera i vent’anni. “Arco” lungo il quale, come su un ponte, queste briciole, questi lucenti sassolini, sono stati gettati a tracciare un percorso ma chissà perché non più ripresi. Un arco, un arco come un ponte, quindi un camminamento sospeso, che però a lungo è rimasto invisibile, o meglio, non aperto, un varco non attivo. E allora non possiamo non chiederci: qual è la peculiarità di una raccolta che abbraccia, ma in silenzio, inedita, un tempo di scrittura tanto lungo? Quali sono le ragioni per le quali un testo poetico rimane confinato in un cassetto nel tempo, mentre per altre poesie coeve si prefigura e si realizza la pubblica condivisione? In forma di domanda, azzardo un abbozzo di risposta: perché lasciare briciole dietro di sé, se non per l’intenzione (conscia o no, poco importa) di ritrovare la strada verso casa, qualunque questa sia, comunque questa sia stata? E andiamo finalmente all’impianto del libro, altro elemento ricco, a mio avviso, di implicazioni significative. La nostra autrice decide di rivolgere le proprie note laudative al niente, al tutto, al tempo e all’amore, esattamente in quest’ordine e anche questa cosa mi si impone come degna di attenzione, insieme al peso specifico assunto da ciascuna sezione, con quella dedicata al tema del Tempo che, centrale, di gran lunga più corposa e preceduta dal Tutto, assume il ruolo di campata, nell’ideale ponte che il libro costruisce, lasciando come spalle, come colonne laterali, il Niente da una parte e l’Amore dall’altra, simmetricamente di 14 e 13 testi. Eccoci dunque una mappa per il nostro attraversare: dal Niente all’Amore attraverso il Tempo, abbracciando Tutto. Ed ecco, chiarissimo mi pare, il pensiero forte di questo libro, biografia in versi, elogio della vita, chiave che dissigilla il senso primigenio dell’essere nel mondo della nostra Autrice. Un arco, un ciclo di vita, come direbbe la Psicologia, che da Franca Alaimo è assimilato a quello lunare che, solo, “raccoglie insieme/il tempo dell’infanzia e della morte” (Alberi, p.12). Un arco reso in un canto che trova in un certo abbassamento dell’io lirico (Io: dico, sapendomi minuscola, Il peso dei nomi, pag. 28) le proprie note più congeniali, le altezze empatiche e mature da cui cogliere e restituire gli elementi di rottura, lo squarcio, il sovvertimento, la mite ma ferma ribellione, che mi appare ravvisabile nelle tante avversative, nei frequenti ma e però che introducono le chiuse o comunque un’ideale seconda parte all’interno di moltissime liriche. Dal Niente all’Amore. Dal nostro essere niente, nel senso di “indiviso tutto”, come ben sottolineato da Daìta Martinez nella quarta di copertina, oppure nel senso di una meno solare lusinga nichilistica? E poi, dal niente a quale amore? Sono due abissi, si badi: il Niente (la vita/che lentamente si sbriciola/…), notti come pendii franati, pag.14) e l’Amore che io ravviso nel continuo richiamo al divino e in un sorprendente, sapiente disseminare la parola gioia che germina nel rorido degli innumerevoli elementi naturali e che si farebbe un errore, credo, a rubricare come mero sfondo: gli oggetti della natura a mio avviso si impongono in figura insieme all’Io, insieme al corpo, corpo essi stessi, vividi della stessa sostanza divina, anche se penso che qui non si stia parlando del Dio cristiano (per quanto fra i testi la parola dio ricorra tanto in maiuscolo che in minuscolo). Sembra di sentire tra le pagine, nel vento così frequentemente evocato, un panteismo, una sorta di “tutto è pieno di dei”, trasfigurarsi e germinare in un “tutto è pieno di gioia”, attraverso la nuova prensione delle cose consentita dalla poesia, dal suo rivoluzionario sovvertimento della realtà, che innalzata e universalizzata consente al poeta di uscire dalla sua pesantezza opaca e di cantarla da una distanza che è precondizione di conoscenza ma, elemento a mio avviso centrale nella poesia di Alaimo, immediatamente di ricongiungervisi, di ri-conoscersi come parte del tutto in una dimensione nuova, in un afflato profondo con il Tutto che non spaventa e soprattutto che salva. Superato l’horror vacui, superata l’angoscia di dispersione dell’Io, di perdita dei confini dell’Io, avvertirsi minuscoli e parziali, è ben diverso dal sentirsi annichiliti. È invece sentirsi parte di un equilibrio, di un ciclo , di un cosmo che si contribuisce a ordinare anche se rinunciando a cercare un senso che non sia questo esserci, “senza che vi sia un vero senso” (Canne e vento, pag. 20): e le Canne al vento di Deledda diventano Canne e vento e dice Alaimo: un evento banale nel lungo movimento/che non ha altra sponda/se non dubitando e oscillando/essere vento per il respiro della canna/canna per il soffio del vento. Sono versi bellissimi che basterebbero da soli a farci cogliere la direzione della riflessione filosofica dell’autrice, ma mi piace insistere sul soffio, su questo elemento naturale e divino nel quale mi pare di ravvisare una sorta di panteismo spinoziano: per il grande filosofo, Dio ossia la natura è in noi come in tutte le cose. Accettare questo pensiero è ciò che salva lo sgretolarsi dei giorni dal loro precipitare nel vuoto, nel niente. Ecco, in queste poesie, l’Io lirico avverte in sé, e nella realtà intorno a sé, la presenza di una pienezza di vita che lo avvolge e lo oltrepassa: il poeta avverte l’eternità, via via sempre meno confusamente. E con una invidiabile impennata di gioia si rende conto che l’essere umano non è un autonomo regno separato dal mondo ma partecipa del Tutto. L’umana sete di felicità sembra qui identificarsi con la ricerca inesausta della capacità di sentire la gioia nel transeunte, nel doloroso, nell’incomprensibile, nell’infimo che caratterizza l’esperienza umana. Questo è possibile attraverso la scoperta poetica di un amore per la vita intesa come sovrapersonale cosa eterna e infinita, in grado di riempire l’animo di pura letizia e renderlo immune da quell’angoscia di dispersione e vanità di cui dicevo sopra. “Però adesso ripeto il mio sì/perché nulla si disperda fra me/e tutto ciò che ha respiro” (Al mattino, di nuovo, pag. 35): ecco questo libro è il sì dell’Io lirico, questo continuo tenace costruire e attraversare, questo ponte tra sé e la vita, tra noia e gioia, come ci dice Franca Alaimo ponendo queste due parole in rima nell’ultima poesia della raccolta, dialettica tra distanziamento mortifero dalla realtà, supina accettazione del destino e disperazione, da una parte, e accesso a una salvezza mercé” l’eccesso dell’amore”, pronta ad accogliere il soverchiante di una annunciazione capovolta, la tentazione del troppo che ancora gonfia il petto. Ed ecco dunque la risposta al mio primo perché, quello relativo al titolo: si parla di elogi, qui, sembra dirci Alaimo, ma non soltanto: si dice che si deve elogiare. Se lode è segno d’amore come partecipazione profonda, non può che essere di elogio un canto alla vita, anche quando a esser cantate son le più drammatiche tra le pagine vissute, anche quando riguardano il pensiero o l’esperienza della morte, anche quando affondano nella memoria della perdita più dolorosa o della più vile tra le violazioni che una donna possa subire.