DATITÀ DI GIOVANNA FRENE

DATITÀ DI GIOVANNA FRENE

Diciotto anni dopo la prima edizione per Manni, grazie al lavoro encomiabile dell’editore Danilo Mandolini di Arcipelago Itaca, viene ristampata l’opera in versi Datità di Giovanna Frene (Arcipelago Itaca), arricchita oggi come allora da una post-fazione di Andrea Zanzotto. Il quale, senza mezzi termini, avvicina la lingua poetica di Frene al linguaggio scultoreo del Canovavicinissimo conterraneo, per il quale la forma non fu mai rappresentazione,  proiezione o «doppio» della cosa, ma  la cosa stessa sublimata, trasposta dal piano dell’esperienza sensoria a quello del pensiero (scrisse infatti Argan che il trapasso dal sensismo all’idealismo, compiuto da Kant, Goethe e Beethoven nei campi della filosofia, della letteratura e della musica, avvenne per l’arte, in pieno neoclassicismo, proprio per mezzo del Canova). Una morfologia del pensare certo, poesia che si pensa, che si raccoglie e comprime -imprimendosi- nell’espressione scultorea, gestuale del verso. Quindi non più immagine di una somiglianza o proiezione dell’oggetto, desiderato-desiderante, marcescente doppio di nessun io (Canova non ebbe a conoscere Nietzsche e tantomeno Heidegger, Leopardi a quanto pare si, o forse, per certo le cronache riferiscono del poeta commosso alle esequie dello scultore) ma morfemi « riflessi dietro lo specchio percepire d’un tratto un uno»dietro per l’appunto, nel rovescio dello sguardo, come per “gli spiriti innestati sotto il rovescio della lastra dello specchio” di Artaudiana memoria (Succubi e supplizi, Adelphi 2004); ed è proprio nell’autoritratto che apre il libro che percepiamo, trasfigurato, non altro che l’altro-da-sé che chiede, interroga, sevizia il corpo della ragione quanto la coscienza della memoria (e sempre Artaud, come ben analizzato da Enzo Campi nel suo Artaud il supplizio della lingua (Marco Saya Edizioni 2018) trafigge lo specchio-carta con il chiodo della grafite-parola, torturandosi). In questo luogo, così lacaniano, si ritrova il lettore, nelle piaghe riflesse di una sfera intima lacerata, nel Tritacarne, evocato nel testo e che richiama il caro Stalker e la sua Zona, “dietro il paesaggio” (splendida poesia dello stesso Zanzotto), spazio di quasi-vita, landa in cui compressa vive la scrittura di quest’opera,  sulla carta-specchio che ci interroga, continuamente, e non da risposte: «Sarebbe questa la poesia?» «Sono più viva su questa carta che non nella vita», scrive comunque la Frene in un verso esemplare, palingenesi proiettata nel gesto poetico -contro l’impostura generale del mondo, dato nella sua datità- esanime spoglie del reale che vorrebbe ricucire un corpo presunto “santo” (così Zanzotto nella post-fazione), smembrato, spezzettato (come per il Canova, cuore e mano conservate a venezia e il corpo nel Tempio di Possagno da lui ideato), mentre è solo il dolore ombra ad essere perennemente attaccato ai nostri corpi, come ecchimosi. Ed in un eccesso di pensiero «come in un tragitto troppo stretto per la testa», farsi riaccogliere dalla poesia per ripensarsi criticamente, penetrare questo dolore ritratto come un’Alice nello specchio, riflettersi sul foglio bianco e in quell’ombra chiara vedersi chiaramente (il linguaggio riflette se stesso rammentava Foucault, a proposito di specchi, proiettandosi all’infinito); forse proprio questo il segnale più importante che può darci la riedizione di questo testo: interrogarsi e interrogarci ancora e continuamente sia sull’allontanamento del pensiero critico dalla poesia che sull’assenza di un percorso cosciente di poetica, inteso come ricerca costante di una poetica propria («il mio scorrere attorcigliata alla parola»), pessime tendenze comuni nella poesia odierna, tutta assorbita dalla figura spettacolarizzata del poeta intento a imbellettarsi di fronte allo specchio-spocchia dei social, incatenato all’immagine, all’immaginario già pensato per noi riflessi sullo schermo.

Fabio Orecchini

Poesia del nostro tempo

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