GLI IMPERATIVI DI AFFETTO DI CAPRONI
Giorgio Caproni ha dichiarato, in margine ai Versi livornesi che costituiscono la sezione fondamentale della raccolta del 1959 Il seme del piangere: «Tentar di far rivivere mia madre come ragazza, mi parve un modo, certo ingenuo, di risarcimento contro le molte sofferenze e contro la morte». Il titolo dell’opera – dantesco, scrupolosamente citazionale come sarà molti anni dopo, nel 1975, Il muro della terra – è già memoria: memoria letteraria, con le sue fedeltà e i suoi inganni iperrealistici. L’epigrafe che apre il libro, comprensiva del sintagma titolativo, chiarisce meccanismi e significati di una sottoscrizione preliminare indiretta, in apparenza parziale, in realtà protagonistica e complessa nella sua unitarietà di progetto, se siamo rimandati alPurgatorio, canto XXXI, vv. 45-46, e chi parla a Dante, chi lo rimprovera severamente ben sapendo che anche il silenzio non sarebbe servito a tener nascosta la colpa, è Beatrice. Ampliando il contesto e parafrasando: «Tuttavia, dal momento che ora provi vergogna del tuo errore, e perché un’altra volta, udendo le lusinghe dei falsi beni, tu sia più forte, deponi la causa delle tue lacrime ed ascolta: così udrai come la mia morte avrebbe dovuto indirizzarti in altro senso, spingerti non ai beni della terra ma al cielo». Siamo nel Paradiso terrestre, alle soglie della purificazione necessaria per intraprendere l’ultimo viaggio: alle requisitorie fanno seguito le esortazioni, all’aspra eloquenza delle reiterate rampogne i lucidi e struggenti argomenti della persuasione. Ed è impossibile non accorgersi dell’assolutizzazione che Caproni effettua nel privilegiare due endecasillabi esatti, piegando le ragioni del senso a quelle del suono. «Perché tu sia più forte, per essere più forte», diceva Dante a se stesso per bocca di Beatrice. Al rigore della citazione e del riferimento bibliografico esibito si abbina la libertà del taglio, portatrice, tra memoria volontaria e involontaria, di nuove coloriture semantiche: «…Udendo le sirene, sie più forte, / Pon giù il seme del piangere e ascolta…». Quel liberissimo sie, sciolto dagli originari legami subordinativi, rende possibile, modernamente, la coordinazione, si trasforma in primo appoggio in una serie parificata accresciuta. Gli imperativi dell’affetto diventano tre, ed è un modo quotidiano di variare e di ripetere un’unica raccomandazione, meno sottilmente ragionato e invece più sottilmente efficace per rivolgersi a un bambino distratto, abituato a sbagliare e a pretendere quegli immancabili interessamenti per il suo bene. Un bambino sempre in attesa, se l’arcaico e dantesco rispitto risulta rapportabile al provenzale respit. Eppure quel sie che si presenta genericamente come un congiuntivo rimasto senza appigli è anche, nuovamente per via di memoria, l’indice della precarietà della comunicazione tentata, un preannuncio della casualità e delle pietose convenzioni che fondano il codice. I collegamenti sono difficilissimi, la linea è disturbata, cade di continuo. Dal poco che di confuso e di interrotto si riesce a ricevere nasce la poesia. Ed ecco, per via poetica appunto, il «seme del piangere», la dantesca causa delle lacrime svelata conclusivamente in una poesia proprio così intitolata, attigua a quella Preghiera che qui, nel nome della madre, si propone alla lettura e all’ascolto anche attraverso la voce del poeta stesso. Un bambino «debole come un cerino» in una città grande, immensa e sconfinata per lui, ha cercato per tutto il giorno «la mamma-più-bella-del-mondo», ed essa non c’è più, è via, si è separata da lui, l’ha lasciato. Il bambino piange «nel buio d’un portone», è il solo ad aspettare il passaggio di Annina, a richiederlo in una città smisurata, irriconoscibile, fatta di attese vuote: «Quanta Livorno, nera / d’acqua e – di panchina – bianca!»; «Viva era la camicetta / timida e bianca, viva. / Nessuna cipria copriva / l’odore vuoto del mare / sui fossi, e il suo sciacquare» (vv. 1-2, 17-21). Il poeta ha già scritto in A Giannino: «l’amore mio che stava ad aspettarmi / solo su una panchina» (vv. 3-4). Annina, intanto, è in un fumoso bar di stazione, anche lei confusa, incapace perfino di scrivere al figlio una cartolina che dica, rasssicurandolo: «Caro, son qui»(Ad portam inferi, v. 30). L’anima di Caproni, l’arte, è supplicata adesso di pedalare, di volare come Annina ciclista. Ora la fretta è la poesia. La polisemia del termine anima è garantita da una fonte sicuramente tenuta presente, come testimoniano analogie tematiche (il motivo del temuto disviamento), puntuali rimbalzi lessicali (congedo, va’, leggera), un impiego rimico soltanto rovesciato:«Deh, ballatetta alla tu’ amistate / quest’anima che trema raccomando: menala teco, ne la sua pietate, / a quella bella donna a cu’ ti mando». Si comincia con Dante e si finisce con Cavalcanti e ancora con Dante, se nel «dille» del v. 80 si rivela attivo il ricordo del canto VII del Paradiso, vv. 10-12: «Io dubitava, e dicea ‘Dille, dille!’ / fra me: ‘dille dicea, alla mia donna / che mi disseta con le dolci stille». Ma è il momento, dopo tanto aspettare, di far arrossire Annina, di gettare la sigaretta che il poeta ha dato all’anima per farsi coraggio e avvicinarsi alla donna. Alla fine il messaggio sussurrato all’orecchio consiste nel dire soltanto da parte di chi è l’ambasciata: «suo figlio, il suo fidanzato».