LA POESIA DI FABIO DAINOTTI
La vocazione poetica di Fabio Dainotti comincia a manifestarsi in maniera concreta negli anni Sessanta (Diario poetico, 1964) e Settanta (ne L’araldo nello specchio, 1996, confluiscono le liriche del decennio 1964-1974) per poi continuare, con cadenza costante, a dare frutti: La ringhiera, 1998; Ragazza Carla cassiera a Milano trent’anni dopo, 2001; Un mondo gnomo, 2002; Ora comprendo, 2004; Maliardaria, 2006. Poesia apparentemente semplicissima, in quanto fondata su sentimenti pensieri fatti quotidiani, e , al tempo stesso, complessa, poiché la connotano una lieve ironia spesso dissimulata e l’esatta misura della parola. Di qui la brevitas propria non solo di parecchie liriche composte di pochi versi, ma anche di altre più lunghe e distese, nelle quali essa, cioè la brevitas, si rivela sotto forma di sentenziosità epigrammatica oppure di scatti improvvisi, quasi tranchant. Gli esempi, che si propongono, dovrebbero concorrere a far emergere quanto qui accennato e a dimostrare la duttilità delle scelte espressive, non mai episodiche e confluenti anzi in un tutto organico, fatte dall’autore.
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Il primo esempio, che si attinge da L’Araldo nello specchio, è offerto dalla lirica Madre che ho fatto soffrire. L’autore ricorda la figura della madre e, nell’esprimere il suo dolore per averla fatta “piangere e soffrire”, ricorre all’immagine della quercia “investita dalla pioggia” nella campagna “squallida infinita”. Immagine preceduta da una definizione sentenziosa, capace di elevare a potenza quello che il figlio prova ricordandola: “madre sostegno mio della mia vita” (da notare anche il campeggiare della parola “madre”, incipit di entrambi i versi iniziali). Ma si veda il testo nella sua interezza: “Madre che ho fatto piangere e soffrire / madre sostegno mio della mia vita / una quercia investita dalla pioggia / nella campagna squallida infinita.” Nella medesima raccolta si possono cogliere altri esempi di sentenziosità, a cominciare dalla poesia Rimorso: “Non puoi mangiare, leggere il giornale, / discuter di politica, di arte, / guardar la pioggia, giocare alle carte, / senza sentire in fondo al cuore male. // Non puoi più ridere, non puoi più bere, / dormire, entrare in casa, in ascensore, / lavorare, fumare, far l’amore. / Non puoi provare più nessun piacere.” Dove il verso finale riprende il Leitmotiv del ‘non potere più’, che in quelli precedenti l’autore rivolge più volte a se stesso, e ne estende le conseguenze, passando dalla singolarità di questa o quella cosa, prima per lui piacevole e desiderabile, alla generalità di tutte quante le cose divenute, a causa del sopravvenuto rimorso, prive ormai di qualsivoglia piacere. Un terzo ed ultimo esempio (ma altri ancora se ne potrebbero fare) si ricava dalla chiusa della lirica Cattedrale: “E quel profumo, amore, / che mi donasti in quale / incensorio svapora, / se d’ogni cattedrale / è chiuso il portale / e se un fazzolettino / tuo neppure ho / per mio destino.” Il gioco delle rime ed anche la brevitas dei versi, inseriti in una sorta di discorso poetico ininterrotto – all’“E” iniziale, riferito al “profumo” della donna, fa eco l’“e” che introduce il secondo motivo di rammarico, legato al “fazzolettino” di lei, desiderato ma non avuto dal poeta -, accompagnano in maniera suasiva la musica lieve, quasi cantabile, che informa il testo e imprime di sottile malinconia le due immagini sopra citate.
Nelle liriche, per lo più brevissime, della raccolta La ringhiera minime sono le occasioni di sentenziosità più o meno epigrammatica. Ma il congedo dell’autore alla fine della vicenda, quand’egli si ritrova miracolosamente guarito dopo aver tanto sofferto per amore, ha il tono di una massima con la quale egli si appresta, quasi con stupore, a girare pagina dopo la dolorosa esperienza vissuta, registrandone la scomparsa appena avvenuta: “Dunque senza rimedi son guarito / da un male che credevo immedicabile. / E sembra solo ieri, poco fa…”. Sorta di auto-sentenza, ispirata da sollievo e pronunciata a voce alta, come se essa venisse estratta dal flusso del pensiero (il “Dunque” iniziale ne manifesta la continuità), che stenta ancora a capacitarsi di questo esito inaspettato (“E sembra solo ieri, poco fa…”). Se Ragazza Carla cassiera a Milano trent’anni dopo non offre esempi di tale scelta stilistica, altrettanto non si può dire per la plaquette Un mondo gnomo, che si apre con la seguente poesia, intitolata Ars poetica: “Scriver versi fa bene e anche male: / la madre che si sgrava / prova un piacere uguale.” Il paragone tra il dare alla luce dei figli e lo scrivere versi viene espresso in maniera sentenziosa: l’una e l’altra cosa possono fare bene oppure male, ma uguale è il piacere che in ogni caso se ne ricava. Ed il poeta parla a ragion veduta, cioè per diretta esperienza. Una certa analogia è possibile cogliere nella lirica immediatamente seguente, L’omino dell’osteria a Pavia: “Te ne vai a piedi scalzi per il mondo / la luna mancava / ma c’erano le stelle là. // L’omino dell’osteria / col cappello sugli occhi / non sa spiegarsi il fuoco che ha dentro; // ma so cosa significa il mio / fuoco, la mia follia.” In apparenza l’argomento non offre occasione alcuna di massime o sentenze; oltretutto l’omino del titolo resta un personaggio qualunque, un estraneo non meglio identificato. Ma il fatto che egli non sappia spiegarsi “il fuoco che ha dentro” suscita nel poeta, per contrasto, la percezione di sapere bene, invece, cosa significhi il suo “fuoco”, la sua “follia”, che appunto lo induce e spinge a scrivere versi, ad essere cioè se stesso: consapevolezza a cui si addice il ricorso alla sentenziosità da parte di chi rivela l’esperienza o, meglio, l’acquisizione fattane (“ma so… ”).
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Molti sono gli esempi offerti dalla raccolta Ora comprendo. Se ne scelgono tre. La conclusione del primo rimanda a Catullo, citato nella dedica: “La toletta sapiente, ricercata / e la tua voce bruna, di contralto. / Vagamente infelice, / guardavo dall’invetriata, scavato / il viso sul colletto inamidato. / Soffrivo per la voglia di girarmi / verso di te, guardarti: / poi udii i tuoi passi farsi / più vicini, aumentare / o giorno da segnare.” L’ultimo verso, che segna lo stacco, è però bene inserito nel continuum delle rime e delle assonanze (“ricercata-invetriata”, “scavato-inamidato”, “girarmi-guardarti-farsi”), il quale culmina infine, con rovesciamento totale della situazione, nella rima “aumentare-segnare”, dedicata alla commemorazione grata di quel giorno. La seconda lirica contraddice del tutto la precedente, ma riserva analogo scatto alla contrapposizione finale: “Perciò quella sera alla Scala / non eri al botteghino, non salivi / per le scale di marmo, non venivi, non saresti / venuta. Non eri neppure nel foyer. / Nelle rosse file di poltrone, / nei palchi, nell’alta fila nera / di binocoli e abiti da sera / tra mille volti grigi il tuo non c’era / sorriso indefinibile: eri dove / un uomo t’abbracciava senza nome.” La sequenza dei “non eri”, “non salivi”, “non venivi”, “non saresti / venuta”, “Non eri”, “non c’era” si capovolge nell’ultimo “eri”, che attesta la presenza, e non più l’assenza, della donna sorpresa però in compagnia di un altro, uno sconosciuto “senza nome”, non meritevole perciò neppure di una rima, ma di una semplice assonanza (“dove-nome”). Il terzo esempio si ricava da un’altra conclusione, e precisamente da quella della poesia Punto di vista, in cui la donna è dapprima descritta come realmente essa è e poi come la vede, invece, chi l’ama. “Ma di chi / parli, di quella donna / con gli occhiali, due figli, era seduta / vicino a te agli esami? // La descrizione corrisponde, eppure / io la vedo più bella: tu non l’ami.” Dove lo scatto finale è reso ancora più incisivo per il concorso in esso, quasi a formare un inscindibile tutto unico, anche della brevitas e della sentenziosità epigrafica.
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Un’ulteriore considerazione è suggerita da quel “Ma soprattutto vivere” che si legge nella lirica Consigli a un esordiente della raccolta estrema. Nonostante che si sia già detto qualcosa in proposito, qui si vuol sottolineare come tale esortazione, che il poeta rivolge ad altri e forse anche a se stesso, non rimanga isolata. Ne è prova o conferma, nella medesima Maliardaria, la bellissima lirica A ridosso di una vita (dedicata a Patrizia), che piace qui citare a suggello di questo saggio: “A ridosso di una morte o di una vita, / tornata, partita. / E dove alloggi, forse al Club del liscio, / dove qualcuno arriva, telefona; / dove qualcuno ha furia di comprare / sigarette cerini e/o coloniali. / Ma sempre di sfuggita, senza sapere / che dissonante, piena / di problemi, sollecita, assonnata / com’è, la nostra vita / è comunque vita.” E ne sono riprova, sempre in Maliardaria, questi versi di Mio attante, mio aiutante: “Io ti richiamo in vita, / dal gorgo del tempo, / mio attante, mio aiutante.”: dove il poeta, anzi il Poeta con l’iniziale maiuscola, rivendica giustamente a sé, in quanto tale, il potere di dare vita eterna alle creature e alle cose da lui cantate.