IL ‘CONFINE’ DI CATTAFI
Secco duro gessoso
apparve il disegno del paese.
Là portammo le nostre
leggi, sistemi
di peso, di moneta, di misura.
Il mondo si concluse entro un confine
di pietre abbacinanti,
non vedemmo al di là di quell’altro mondo:
valido, vittorioso
quando ci travolse.
Vagammo a lungo
nei luoghi perduti.
Il paese ci apparve in movimento,
fertile, fluido, mutevole,
ricco di regole e di merci,
emporio e scalo di molte regioni.
Secco duro gessoso sovente è l’occhio,
le mani, lo scalpello lo assecondano,
foggiano cose a nostra somiglianza.
Si suole suddividere il percorso di Bartolo Cattafi in tre fasi: la prima, culminante con Le mosche del meriggio, ci mostra “un poeta di forme e colori, capace di aderire ai temi della memoria mediterranea con particolare sensibilità impressionistica” (Giuseppe Leonelli); nella seconda, centrata su L’osso, l’anima, vediamo un poeta “di luce fredda, uniforme e tagliente, nella quale gli oggetti si profilano con precisione piatta e sinistra come al di là di una vetrina […] o sulle tavole di un libro di anatomia” (Giovanni Raboni); la terza, con L’aria secca del fuoco, sembra tornare alle origini, alle emozioni di una riscoperta e riappropriazione del mondo. “Confine” (da L’osso, l’anima) potrebbe essere una metafora della poesia: un paese oltre il confine secco duro gessoso della vita, difficile da valicare superando le nostre unità di misura. Tutto vi è più valido, vittorioso, in movimento, fertile, fluido, mutevole, ma per l’uomo – uscito dalla guerra, immerso in una solitudine post-diluviana – è anche fatica e dolore. “La poesia” confessa Cattafi in un suo scritto “è tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale”.