L’ETERNO PRESENTE DI FELICIANO PAOLI

L’ETERNO PRESENTE DI FELICIANO PAOLI

Feliciano Paoli è un poeta che merita di più di quanto abbia finora ottenuto in termini di riconoscibilità dalla critica, seppure sia stimato ben oltre i confini geografici delle sue Marche (è nato e vive ad Urbania). Lo testimonia la prefazione del grande Yves Bonnefoy alla sua terza raccolta Non perdere per strada (Archinto 2014), in cui la scoperta del viaggio è delineata lungo le coordinate spazio-temporali e in un radicamento di ambienti e natura, di episodi localizzati, legati al versamento della memoria. Annota Bonnefoy: “Perché questa terra di parole sia accessibile al poeta, è assolutamente necessario che egli non abbia paura, in effetti, di sprofondare le sue radici in quegli strati di suolo a lui sconosciuti. C’è della notte in questo sotterraneo lavoro del grande albero umano che tuttavia vuole slanciarsi, farsi foglie e fiori nella luce”. Paoli sa celebrare il passato e riconsegnarlo in un eterno presente di umana dignità. La comprensione della sua poetica si concretizza in un marchio, in un dialogo muto tra la realtà giornaliera e un altrove non metafisico ma certamente sacrale, riempito di voci, corpi, esseri viventi che scivolano garbatamente lungo il percorso dell’esistenza come lungo un sentiero sterrato nei pressi del monte Nerone: “Ma va bene così; passare più lento / i centimetri di spazio mi / permette di andare in un museo / e scoprire la radice di un albero / che somiglia perfettamente / a un serpente // mentre la guida mi mostra / i fossili dicendo i milioni / d’anni…”. Questa poesia è intervallata da lacerti in prosa, da brani interpretativi in un completamento della percezione sotto forma di versi. La distensione narrativa permette di fissare alcuni punti chiave e preparatori del lavoro del poeta, come la funzione dello sguardo nell’impulso di affacciarsi ad una finestra, o la felice ossessione dell’inquadratura di un albero, quasi fosse una ripresa cinematografica da un rettangolo, da quella geometrica forma come è appunto una finestra. E quindi il ritorno immediato alla poesia, come nella bellissima L’orologio comunale: “Finché ci chiesero di riparare / l’orologio antico che era rotto / e fuori uso da quarant’anni almeno. / Così andammo per le scale strette, fino alla torre campanaria, / un’altezza che vedi / le vie come spacchi con / le persone piccole…”. “Il serpente di ferro” della lancetta scandisce l’ora, la mezz’ora e il quarto. Ecco la dimostrazione che l’archetipo del tempo scopre l’inesorabile perdita, una dissipazione, ma anche il desiderio, illusorio, di bloccare una sequenza monotona e scandita dal suono. Forse è proprio il tempo lo straniero della strada amica dalle parti di Urbania, un’identificazione che scompagina l’ordine delle cose, che affligge silenziosamente la coscienza. Non manca la dilatazione paesaggistica, l’impressionismo contemplativo, l’occhio sdoppiato tra vista e immaginazione, visione. Priva di ogni intellettualismo, la poesia di Feliciano Paoli si svela dunque in una presenza discreta, nel nutrimento scrupoloso dell’osservatore: “Come ci stavano attenti a non dar fastidio / alla sorgente, l’acqua ne veniva poca e se / ci si arrovellava per aumentarla, per meglio / incanalarla, per lavorare intorno alla sorgente / ma ci si stava attenti memori del cauto avviso / di quanti si accostavano alla flebile sorgente / come se fosse un animale che / disturbato può per sempre sviare, ed erano sospesi / nella mente se scegliere il poco o il niente”. Fuori da ogni artificio linguistico, la consapevolezza poetica di Paoli rimane orientata ad un confronto aperto scandito da una dimensione fisica e spirituale, da una cartografia dell’anima nei luoghi più amati e segreti.

Alessandro Moscè

Pelagos

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