IL RACCONTO NEI VERSI DI RENATO MINORE

IL RACCONTO NEI VERSI DI RENATO MINORE

Nei versi di Renato Minore c’è sempre un racconto che aspetta di essere avviato. C’è un’attesa, la promessa di un evento che potrà essere rinviato ma non cancellato. Il destino arriva sotto la spinta di un nonnulla, una paro­la più dinamica dell’oggetto a cui si riferisce. Vedi La piuma e le biglie, storia di un silenzio che precipita verso un altro silenzio, che è speculare del primo, sua replica «inferiore», convalida dell’iniziale immobilità, per quanto tesa e allarmata. La necessità di qualcosa che è inutile? Questa è solo la prima antitesi del racconto di Minore. Ce ne sono tante altre, oltre a quella tra movimento e immobilità; quella tra superficie e profondità, tra pesan­tezza e leggerezza, tra ripetizione e differenza, tra silenzio e clamore. Gri­dano infatti le altre poesie qui raccolte, quelle in cui le parole arrivano addosso clamorosamente come biglie colorate e pesanti e contundenti. I versi del primo poemetto sono invece, simili a piume, lenti nella caduta a spirale, leggeri come a sfiorare gli oggetti, sospesi in aria come a ritardare un evento minacciato. Non ha quasi «fisicità» la voce che li deve pronuncia­re. Metafisici versi da leggere «col pensiero». C’è infatti un disegno intellet­tuale in questo componimento. Anche negli altri, dove le parole alzano la voce, forse per scacciare un pensiero fastidioso e ossessivo. Non sembrano dello stesso poeta, ce ne sono almeno due, un poeta a due livelli differenti. Il superiore è quello di La piuma e le biglie; sotto invece c’è un poeta che ha da vedersela con le esperienze più urgenti e concrete, che deve affrontare il rimpallo di quelle stesse biglie, fredde e astratte, dopo che sono precipitate nella buca che è un «imbuto». Al confronto è un paradiso lo spazio disegna­to dal poemetto iniziale. Che si tratti di una visione lo si capisce al primo colpo d’.occhio, o meglio, di orecchio. Nei versi di Minore c’è musica che non capita spesso di sentire, «inaudita» anche perché par di vedere solo il movimento delle labbra. Una piuma che solletica e che sollecita a cercare cosa c’è dietro, cosa c’è sotto. Parole ovattate che quasi non si sentono prima che cadano nella buca: la ripida e veloce discesa in cui vanno a finire l’una addosso all’altra le chiassose parole delle altre poesie. Tra biglie e piume. Parole pesanti e rotonde o leggere e volanti. Versi che scendono lenti come piume o versi colorati e rapidi che precipitano con clamoroso rintocco di biglie. Un rettangolo: quello del biliardo o quello della strofe in cui i versi, prima attoniti e sospesi, si mettono presto a rincor­rersi per un’accelerazione che forse è attrazione del vuoto. Una spinta, dalla piuma, o dal basso, dalle buche che limitano la superficie? Ecco: la superficie, quella su cui poggiano le multicolori biglie pronte a muoversi c insieme restie a farlo, ma pur sempre consapevoli che ci vuol niente a imprimere un movimento a un corpo tondo. C’è dunque il cerchio e c’è hi ripetizione. Anche questo lo si vede in superficie, magari in quella liquida in cui si specchia Narciso, colui che cerca l’altro per trovare se stes­so. Il cerchio in cui si specchia il poeta-narratore: la biglia nera nella quale inizia e si conclude il racconto. Il liquido della nascita e della morte. I versi che si agitano e scivolano o sbattono per dare vita stanno correndo verso la morte tanto odiata, tanto desiderata? Il racconto in versi torna ad essere lirica. Il poeta lo sa, il poeta sa: al punto che può trarci la morale della favola. È questa l’aria? Questa è l’arietta, quella metastasiana, che piace tanto a Renato Minore. Il poemetto La piuma e te biglie forse è una favola («C’erano quattro biglie colorate»). Morale: alla fine un concetto ti penetra sempre nell’orec­chio, ed è orecchiabile. La composizione è piana e semplice, ben squadrata dentro il rettangolo del biliardo sul quale le quattro biglie accostate fanno quadralo. Stanno difendendo un segreto? Tocca andare a scovarlo sotto. Non aspettano altro: sono sull’orlo di un imbuto, che a guardarlo dalla superficie è la buca, una delle buche dentro le quali sono destinati o attratti per vertigine o altro desiderio di morte le biglie, i versi e le parole di Mino­re. La morale è però che nemmeno laggiù esse riposano in pace, se è vero che alla fine del «racconto» le biglie sono di nuovo raccolte insieme a spec­chiarsi, «pronte a partire», pronte a ripartire. Non si sa mai cosa c’è sotto, ma basta una piuma per essere spinti dentro la voragine. È questa distanza ira il sopra e il sotto che deve essere «raccontata» da Minore, se è questo veramente il percorso. Forse è un sogno («La pista allungata,/infinita/era una distesa/di acqua o di sabbia,/ma senza acqua né sabbia»). Anche in altre poesie succede lo stesso; cioè fanno improvvisa apparizione persone e cose che non dovrebbe­ro stare lì. Vengono da un altro mondo, che è stato rimosso, e scombinano il disegno, che invece desidera essere elementare. Elementare è intanto il mondo contadino evocato dai colori delle biglie. Sarà la biglia o sarà il verde del panno del biliardo ma come ci saltella sopra la capra felice nella memo­ria e nella nostalgia. E come si spacca la scorza verde della melograna per far esplodere nel ricordo il rosso di un sorriso aperto e dentato. Se facessi­mo un racconto «onirico» dei colori, potremmo dire che poi tutto viene coperto dal bianco della neve, almeno finché non arriva il nero della notte. La storia però non finisce qui: perché il nero, volendo diventare altro, arri­va solo al nero più nero, al nerissimo («nero nerissimo», narra il verso), cioè si conferma, si radicalizza, ma non esce da sé, in se stesso sprofonda, dalla superficie in cui si specchia, da quando è circolato tra i versi il nome di Narciso. Di sicuro è un gioco. Ci sono le biglie, il campo da gioco, il tavolo verde e tanto colore. Per Minore è un gioco farle partire e costruirci sopra un rac­conto. Non ha bisogno della stecca né di altro bastone per smuoverle dalla loro muta immobilità. Basta una piuma per avviarle, le biglie e i versi di Minore. Segno che sono leggeri, che non sono appesantiti da gravi significa­ti. I colori sono vivaci e smallati ma non urlanti (perché è un grido strozzato anche quello della melograna). Altrove c’è qualche abbassamento linguisti­co del «parlato», ma non c’è quasi mai vistosità metaforica. È semplice fino allo scontato pure la geometria: un quadrato per quattro biglie non è un intreccio complesso. Lo sanno che se ci sono le buche vi precipiteranno prima o poi. Lo sanno anche i versi di Minore che il loro movimento, il più semplice e lineare e solare, inizierà presto la discesa che li porterà giù al concetto, al significalo di tanto precipitare. Sulla superficie essi battono contro le sponde di gomma (il metiro invece della prosa) per attutire gli urti e per acquistare l’elasticità necessaria agli «effetti» (enjambements, rime al mezzo, anafore, accelerazioni ritmiche ecc.). Non hanno fretta di finire in buca, nel fondo, dove giaceranno, per un’ulteriore attesa muta. Il mito è forse allora quello di Sisifo, come insinua il «sociologo» che troverà solo «quel grande specchio/che riflette/specchi specchi specchi». Lo sparo che è stato «rinviato da sempre» esplode negli altri testi, dove si combinano liberamente parole e suoni per avvicinare cose lontane quanto il sogno e la realtà, il gioco e la serietà. Narciso si tuffa e rompe l’immagine, nonché la musica. Quando Minore cambia il gioco, le parole-biglie vengono sbattute l’una contro l’altra. Il poeta ora usa la stecca che non è più una piuma, piuttosto una clava o mazza da baseball. Non sono infatti leggere come prima, le parole sono cariche di significato e vanno a colpire significati che andrebbe­ro subito messi in buca o comunque fuorigioco. Ben diverso il dinamismo; l’energia si spreca sulle linee rette o sulle diagonali lungo le quali si intrecciano frammenti di discorso provenienti da ogni angolo o lato del rettangolo in cui prendono forma le strofe. Cadono come birilli i significati travolti dall’impeto o furia che sia, anche se Minore ci mette tanta di quella ironia o umorismo che sia, o altro disincanto. Sui triangoli o quadrati o altre figure piane velocemente disegnate e cancellate dalle biglie, se ne vedono di tutti i colori, ma, come si è detto, Minore tende al nero, il colore che rimanda solo a se stesso, nel nero nerissimo dell’acqua di fonte in cui Narciso annegherà. Lo si sa dall’inizio, dalle origini di questa poesia-racconto, di questo gioco o sogno o favola. Questa è la morale che affiora alla fine. Non c’è l’acqua, è solo un brutto sogno, non serve nemmeno molto anda­re sotto, nel buio, per risalire poi dall’oscuro al chiaro. Minore non fa nep­pure il percorso opposto ma va dal chiaro al chiaro, compreso l’oscuro che mette in chiaro. Analogamente Minore va dal sopra al sopra, compreso ovviamente tutto quello che mette sotto. Diciamo pure allora che va dall’immobilità all’immobilità, malgrado il gran movimento con cui le parole si fanno vive. Si va anche dal silenzio al silenzio, purché si sappia che Minore ha un gran bisogno di romperlo. «Metti che avanza/il brusio delle gazzette/ che è pure vita sottratta/alla non vita. » Mettendo nero su bianco, o bianco su nero, o nero su nero, Renato Minore compone poesie assai «vitali». Forse sono scritte sull’acqua o sulla sabbia? Non c’è nemmeno la sabbia, e, se non chiudete gli occhi, vedrete che Minore è un visionario del semplice e dell’elementare. La visione è La piuma e le biglie, che è il racconto della visione. Sé il racconto è il passaggio dal tic al tock con cui batte il tempo l’orologio e in mezzo ci sono le peripezie, su quello di Minore pende la minaccia della ripetizione. Come dire tic-tic o tock-tock; in altri termini nero-nero o bian­co-bianco, silenzio-silenzio o immobilità-immobilità, insomma la speculari-tà più fedele all’identico. E le peripezie? Sono tutte le altre poesie, quelle biglie colorate con la memoria di un mondo scomparso che precipitano nella buca tintinnanti o ticchettanti o urtantesi rumorosamente come la vita quo­tidiana e i suoi frenetici o parossistici sbalzi di registro linguistico. Se la buca è alla lettera un «imbuto», vien da pensare anzitutto all’inferno: le infernali peripezie di un’esistenza in cui si vive con la precaria stabilità dei birilli. L’imbuto è però anche una figura circolare, dentro la quale tutto torna uguale, come gli specchi del sociologo che fa la fatica di un Sisifo che arrivi sempre senz’acqua alla meta. Resta all’asciutto pure chi si precipita a mettere insieme le parole e farle risuonare. Le biglie cadono dentro la buca ma presto si fermano al livello inferiore, dove stanno a specchiarsi come facevano prima di partire verso l’avventura nel profondo. Non è successo niente di nuovo e di diverso; solo un mutamento di livello, che non fa differenza se la pista è «infinita». Sarebbe stato meglio non muoversi, non rotolare giù, non lasciarsi andare in quell’inferno che è la realtà, la psiche, il comportamento degli uomini? La « visione » di Minore forse ama contemplare il silenzio e l’immobilità e il nero, assassino di ogni immagine e di ogni colore vivace e vitale. Di là viene e là vorrebbe tornare. Però è impossibile starsene fermi se si è sempre sul­l’orlo di un imbuto, buca o inferno che sia. Tocca tenersi «pronti a partire», pronti a precipitare, attratti dalla voragine e dall’acqua che non c’è, Narcisi che si tuffano nella propria morte. Il «racconto» di Minore ha le vertigini. Come si fa a stare immobili sul ciglio di un infernale burrone che promette un destino sempre identico? Non rimane che tuffarsi nelle acrobatiche e «sociologiche» peripezie del «quotidiano», nella sua nera cronaca, nera, anzi nerissima, in cui ci si specchia per vivere e per morire. Basta una piuma ed è il tracollo. E così sia.

Walter Pedullà

Almanacco dello Specchio

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