‘INTIMI RIFLESSI’ DI BELLUOMINI

‘INTIMI RIFLESSI’ DI BELLUOMINI

Quando si parla di Francesco Belluomini solitamente si indica il Presidente fondatore del Premio Camaiore. Uno dei più prestigiosi premi dedicati alla Poesia che deve la sua fortuna non tanto alle partecipazioni, sempre eccellenti, ma proprio al carattere di Belluomini che, non senza difficoltà, ha mantenuto negli anni il Premio indipendente dalle mode e dalle politiche letterarie ed editoriali correnti (ed imperanti) confezionando un riconoscimento che è tra i più ambiti sia dai poeti per così dire navigati sia da quelli più esordienti. Riferimento, questo del Camaiore, necessario e fondamentale per comprendere l’altro Francesco Belluomini, il poeta. Quel poeta che similmente ad altre figure in Italia (si pensi ad esempio a Vincenzo Mascolo, direttore di Ritratti di Poesia, poeta anch’egli) rischia d’essere troppo identificato con la sua attività di promozione della cultura dimenticando l’attività autoriale spesso notevole. Belluomini è nato a Viareggio nel 1941 e ha pubblicato ben quindici volumi di poesia. Tra gli ultimi Occhi di Gubìa (LietoColle, 2008, poi uscito anche in versione spagnola nel 2009 dal titolo Escobenes a cura di Emilio Coco) e Nell’arso delle sponde (Verona 2010). Ha pubblicato anche i romanzi Le ceneri rimosse (Newton Compton, 1989), Sul secco di quell’erba (romanzo in versi, Pagine, 2002), L’eccidio di Sant’Anna di Stazzema (Bonaccorso, 2006), La finestra sul mare (Bonaccorso, 2007), Villa Giulia (Bonaccorso, 2009). Come parliamo del Presidente Fondatore del Camaiore così parliamo del poeta. Un poeta ostinato (ma di quella bellissima ostinazione che è il proprio percorso letterario) che fa dell’endecasillabo contenuto in dieci versi il suo stile. Uno stile severo, antilirico e anticontemporaneo. Un verso che si racchiude in un privato intimo quanto storico. Perché il suo libro Intimi riflessi (Bonaccorso, 2015) è un percorso della memoria che non parla ai contemporanei ma traccia dei ricordi, delle fotografie che devono la loro universalità a un concetto che oggi abbiamo dimenticato. Tempo fa parlando del libro Mito classico e poesia del ‘900 di Bianca Sorrentino (Stilo Edizioni 2016) avevo citato uno straordinario Bauman: l’individuo è incline invece a «consegnarsi al collettivo: quale ricompensa per saltare nel “melting pot” gli viene promessa la grazia di essere scelto, di appartenere. Persone deboli e paurose si sentono forti se, correndo, si tengono per mano». Ecco che Bauman ci mostra per contrapposizione l’operazione storica di definizione dell’io che compie Belluomini. Un’operazione d’altri tempi, d’altre crisi. Quello che oggi appare come una resa dell’io e un consegnarsi alla collettività (con il colpo di coda di un’esasperazione dell’individualità più basica e inutile) in Belluomini diventa un io storico che mette e non può che mettere in relazione vicende collettive con vicende personali senza però delegare l’io agli altri. L’io anzi diventa parte integrante della storia. Il gesto della madre, il carattere del padre, compongono la storia alla stessa maniera dei bombardamenti alleati. Non vi è separazione, l’uno necessita dell’altro, l’uno compone l’altro. Ed è infatti sintomatico leggere degli Alleati, / con la forza del loro bombardare / la Viareggio carente di difese subito dopo, la pagina successiva, dei memorabile momento / cui scesi sul terreno conflittuale / del figlio che disdetta la paterna / autorità, nel mezzo della prima giovinezza. E subito dopo: Cosa facesse l’esile mio padre / sull’affondata Roma, non m’è dato / di sapere. Ma certo lo conosco / la storia dell’ammollo prolungato / e del macabro pasto di glaciali / pescecani. Così come son dentro / quella sua prigionia nella Berlino / dei bossili di morte levigati, / col vanto di futura distruzione. Gli Intimi riflessi di Belluomini sono parte di una storia d’Italia e del mondo anche quando la madre comprò un carretto con le sponde / per caricarvi tutte quelle mele, / che tali piante gettavano lor frutti / in disputa perenne con i vermi. Sono un vivere la storia con tutta la precarietà sentita nelle ossa, nelle vene. Non a caso il primo testo del libro introduce affermando che qualche scatto d’impennata / ne regga l’architrave dell’impianto auspicando quindi un equilibrio, una stabilità che nella storia non pare essere possibile. Infatti il libro si chiude con un spingo tutto quanto a tavoletta / sperando di non sbattere sul muro. La medesima speranza che in tempo di guerra si aveva uscendo per strada, percorrendo i giorni, di tornare a casa, di restare senza sbattere contro la storia stessa. Quando si sapeva che la morte poteva accadere in qualunque momento e con qualunque banalità. E il dolore era una convivenza necessaria e necessariamente da affrontare. Tanto nel restare compresso nel pudore / oltre la soglia massima del tempo quanto nell’odio inconfessabile, nascosto / nell’inconscio, ma pure realmente / coltivato. Ma come dichiararlo / se sorto nel bambino per suo padre. Un dolore in parte risolto, una storia in parte lasciata nella sfera dell’accaduto che però non può cancellare le cicatrici. Motivo, appunto, della poesia: Meno male d’adulto ricreduto / sul non manifesto sentimento, / pur mai dimenticando sofferenza.

Alessandro Canzian

Laboratoripoesia.it

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