OGNI ESILIO DI ILDE ARCELLI
… Nel 1994 l’editore Guerra, credo nel decennale, stampò L’odore dei limoni, una piccola ed elegante antologia dei poeti del Merendacolo. In quell’occasione lessi per la prima volta alcuni testi di Ilde Arcelli, quattro brevi liriche sotto il titolo comune ‘Ogni esilio’. Una in particolare mi provocò un’emozione intensa, l’ultima: “C’è qualcuno che sul finire /prepara con cura la casa per il corpo / suo morto – non è così strano / dopotutto ogni tempo / ha i suoi frutti – qualcosa da sognare / in segreto – da progettare / tra i fiori”. Ogni esilio è un libro dell’Arcelli pubblicato negli ultimi mesi del ’99 dalla casa editrice, piccola ma prestigiosa, di Rosellina Archinto. Rileggo quella poesia. Il “sul finire” in posizione strategica, alla fine del primo verso, rimanda a ‘Per finire’, uno dei piccoli testamenti di Montale. A conclusione del Diario del ’71 e del ’72 il poeta raccomandava ai posteri in sede letteraria (ammesso che ve ne fossero) di fare un falò di tutto ciò che riguardasse i suoi fatti e nonfatti e dichiarava di aver vissuto al cinque per cento. Ilde Arcelli sembra anche lei persuasa che la vita è insufficiente, ma proprio per questo consiglia di non curarsi dei posteri e di rimanere piuttosto fedeli al proprio sogno, costanti nel progetto, comunicando una saggezza che non rimuove il conflitto ed il vuoto, una sorta di egoismo maturo. Non so se sia deformazione professionale il leggere i poeti richiamando alla mente altri poeti, ma l’intero volume mi conferma il riferimento a Montale. Credo, del resto, che valga per il poeta genovese quanto lui stesso diceva di D’Annunzio: per ogni poeta di lingua italiana è impossibile non attraversarlo. La nuova raccolta dell’Arcelli comprende tre sezioni, le prime due in lingua, le terza in vernacolo colto. Della prima, Quando l’incantesimo, mi pare protagonista il cronotopo, cioè il nesso inscindibile tra spazio e tempo. Già nella lirica che apre il volume, infatti, ‘Per Sandro Penna’, le due categorie si incatenano: nella prima strofa “la luce umbra che si sgrana”, “il bel verde fresco della periferia” sono sfondo e limite del desiderio che s’alza, come nella seconda la notte lo rilancia verso “ogni eternità”. È solo un esempio. Si potrebbe infatti fare un inventario delle determinazioni spaziali e temporali, che in molte poesie della sezione cooperano e/o confliggono: la notte che ricorre, il “duemila” che arriva, i tramonti gialli di Matisse e le albe dei ‘Risvegli’, gli aprili e dall’altra parte i boschi, i fiumi, ogni mare, le finestre, le città pietrose. Ci fermiamo qui. L’alleanza o la guerra tra spazio e tempo producono comunque musica: armonie (in ‘Transiti’, poesia tra le più significative e riuscite) o dissonanze (in ‘Magia’), a loro volta complici. Le une e le altre, infatti, promettono “un nonessere pieno” o “una labilità loquace e croccante”, un vivere/morire di poesia, come accade alle stelle del mito cinematografico, Marilyn, James, Greta, rievocati in ‘Anche loro’. La sezione centrale ha lo stesso titolo del libro Ogni esilio (sintagma a cui l’autrice sembra particolarmente affezionata). Si apre anch’essa con un cronotopo “S’impoverisce l’alba tra i colori metropolitani”, che ha però anche una valore sapienziale, di massima o moderno proverbio e fa da prologo all’intera sezione. La tematica del quotidiano sembra prevalervi, emblematizzata nelle “sigarette fumate-succhiate” di ‘Fumo’, materializzazione di un desiderio che acquista connotazioni regressive, anche storiche. Rimanda infatti al grembo materno ma anche ad un non-essere o ad un “essere con”, che viene prima della storica e occidentale separazione dell’individuo dalla natura madre e dai suoi simili. In questo contesto s’insinuano effimere epifanie che si concretano in presenze animali o a situazioni del vissuto, per cui l’eternità può essere un gatto sulle ginocchia ed il vuoto ai margini del mercato perugino della Fiera dei Morti può alludere ad una casa perduta o sperata. Il sentimento dell’esilio connota anche liriche apparentemente più ariose, quelle che alludono a viaggi, inevitabilmente turistici, ad Avignone o in Mitteleuropa, la cui chiave è soprattutto in ‘Viandanti’. Il viaggio è soprattutto quello del pensiero che può di quando in quando produrre miraggi e brividi, ma che incessantemente riconduce ad un universo che è “sagra delle banalità”, in cui banali diventano perfino i lager e gli stupri di Bosnia, che producono soltanto la finzione che non ci siano o più profondamente la voglia di non esserci noi, di essere “tutti morti”, un classico stilema montaliano. L’ultima sezione In lingua madre è in dialetto perugino, un perugino colto, un vernacolo antivernacolare, forse rimando all’infanzia, forse sperimentazione, tentativo di uscire, in avanti, dalle gabbie che la stessa lingua poetica costruisce. Anche qui la centralità del quotidiano è, a volte, intermezzata dalle irruzioni della storia, come sempre banale anche nella sua crudeltà malefica (“la Gestapo l’allarme drento ‘l letto”), o della poesia che illude e consola con le sue parole d’amore, o della morte, meglio si direbbe la non-vita, sognata come varco verso il possibile, espressione dunque di giovinezza. Non casualmente il libro si chiude con parole di impaziente speranza, che alla fine si apra una finestra “‘nver ogni libertà”. Gianni D’Elia ha acutamente notato che il finale “ogni libertà” fa da pendant all’iniziale e titolante “ogni esilio”. Io vi aggiungerei quell'”ogni eternità”, citato quasi al centro della silloge, e tornerei a Sul finire, la poesia da cui ho preso l’avvio. Il dialogo con Montale che caratterizza quel testo e l’intero libro è marcato, infatti, dalla differenza: nella casa che sta fabbricando l’Arcelli non vuol portarsi inerti reliquie, ma, femminilmente, l’intero corpo, vale a dire la fisicità del desiderio. Chissà che quest’aspirazione non colleghi la poetessa alla dispensatrice di gustose merende, diffidente di cene ufficiali e pomposi cenacoli. Certo mi pare che la merenda possa efficacemente identificare una poesia capace di conseguire con mezzi modesti intensità e durata. “I decenni passano in fretta, sono certi pomeriggi che non finiscono mai” scrisse una volta Adriano Sofri.