NATURA MORTA DI RUFFILLI
… Alla visione del mondo di Paolo Ruffilli sottende una solida base filosofica, molto attenta alla tradizione orientale, e particolarmente attiva in questa – come scritto in quarta – «serrata rappresentazione (ed analisi) sulla razionalità della natura e sulla naturalezza della storia» che è Natura morta (Aragno Editore). Una prospettiva inflessibile, per quanto versata nello sgretolamento di un verso volutamente discontinuo e brevilineo che descrive nella sua ipotesi di poetica, una versificazione per frammenti, per stralci lirici discriminati quale mimesi o comunque semiotica dell’incespicare e della pronuncia esitante dell’io (ancora, barlume, lume balbettante) nella disgregazione pulviscolare della modernità. In tutti i codici estetici, il frammento è stigma-emblema, tratto peculiare dell’età in cui viviamo, non esperta della totalità ma degli elementi labili. Ruffilli scrive: «una frantumazione è anche corrispondente a una mancanza di continuità temporale e modifica l’esperienza della memoria, perché il passato non è più un’entità astratta fuori di noi, alle nostre spalle, il passato siamo noi e dunque il tempo verbale per significarlo non è più l’imperfetto, ma il presente». Da un lato Ruffilli vive l’età del dimidiamento dell’io, della sua «andatura intermittente» e della dispersione delle sue qualità spirituali, dall’altro aspira alla ricomposizione della frammentarietà in un quadro più vasto, in un organismo ricostruito a partire dalla numerosità dei suoi brani. Una sorta di opus tessellatum per una riorganizzazione semantica, limpidamente incoerente, del soggetto e della realtà. «È la realtà incoerente, / il vuoto e il pieno / della vita, la sua / andatura intermittente, la misura finita / e balbuziente / del nostro piede / incespicante / scivolato sul niente, / il lato e dato / umano della storia» (La gioia e il lutto). E ancora negli Appunti per una ipotesi di poetica concepisce la memoria come fonte di conoscenza. A un certo punto fa un’affermazione sconcertante: «Non mi volto indietro a riconsiderare con nostalgia quello che non c’è più». Il che giustifica sia la memoria come incremento di esperienza, sia il fatto che non si possa avere nostalgia per ciò che costantemente si ricrea, non c’è cosa che non sia più. Implicati in questa tensione conoscitiva, tempo e memoria cospirano contro l’elegiaco, contro il nostalgico. Come in Proust, il tempo passato non è una faglia che ci depaupera, in quanto in noi incorporato. «L’indistinto e il confuso // contengono l’ordine / dell’intera loro somma». La memoria è «in essere, cioè come realtà presente, insieme diacronica e sincronica», e ci dice che «siamo quello che siamo stati e che sono stati altri prima di noi» – e continuano a risuonare i pensieri di Ippolito dalla balaustra della nave, di fronte al mutevole verdemare specchio di acque. Se la prospettiva del frammento sottintende una intermittenza, forte in Ruffilli è l’istanza della continuità, reificata ad esempio anche attraverso il riuso di sé, l’iterazione cioè di quelle parti versificate ritornanti in opere successive: strofe o singoli versi che interpretano tratti forse privilegiati, che costituiscono o hanno costituito una identità individuale. Assistiamo talora al differimento di tracce indiziarie di un percorso cifrato, alluso al lettore che sia attento a correlare sensi già comparsi a nuovi nessi ancora da definire. Inoltre, questa trazione dilatoria imita il dinamismo temporale dell’esistente nel suo divenire altro: anche il nome cambia di contesto e muta di funzione per esaudire una ricerca interminabile. Come detto sopra, la vera realtà per Ruffilli è quella immaginata, quella al di là del visibile, preliminarmente epochizzato per poi cogliere e restituire, osservava Mengaldo, «le essenze e i destini dei fenomeni»: «quello stato eterno / dentro la vita / disperso e frantumato / dalla vista». Perché ciò che chiamiamo realtà non è che un equivoco dei sensi, una nostra alterazione, essendo essa intrinsecamente opaca e inscrutabile nella sua ermeticità alla ragione. Reali, e come tali abilitate a partecipare dell’arte, sono le connessioni di un pensiero immaginoso. In questa misura anche scrivere equivale a varcare l’alterità delle cose tramite l’immaginazione, ad allontanarsi dalla realtà pur restando concrete le ragioni dell’espressione scritturale. La parola per Ruffilli trattiene più essenza, più espressività della realtà stessa. E la realtà, quella realtà di cui il nome si fa carico di esprimere? Questa concezione della superiorità della parola ovviamente non comporta uno svilimento di ciò che è reale in favore dell’irrealtà o dell’idealizzato. Del resto, in un dialogo incluso in Ombra densa per le ortensie di Trouville…, mio contributo a Pentacordo per Paolo Ruffilli, egli stesso ha dichiarato che nella sua esperienza «niente in realtà è astratto. Il mio modo di essere è quello che gli inglesi definiscono in touch, a contatto. Ed ecco come la realtà attraverso il tatto si materializza nel pensiero. Perciò per me non importa che si tratti d’amore o di tempo o di vuoto o di qualsiasi altra cosa: tutto ciò che tocco è la materia del pensiero. Ecco realizzata l’intima correlazione dell’apparentemente incoerente». Qui non c’è estetismo, solo fiducia nel nome che intercetti «la cifra data e persa», quindi nel nome rivelatore-delatore dell’inafferrabile senso delle cose. Secondo Ruffilli «gli oggetti contano come specchi della mente». La misura umana è l’astrazione, un’astrazione tuttavia operativa. La riduzione a res ficta e la sostituzione degli aspetti del visibile con simboli da sempre hanno permesso all’uomo di padroneggiare una natura arcana e indocile. Quindi l’uomo è (ed è da sempre stato) istintivamente intellettuale perché ha con la realtà un impatto mentalistico al fine di conoscerla, di renderla numerabile e di potervi esercitare un’azione di controllo. «L’uomo è nato simbolista», ha detto Ruffilli, che è come dire che è l’unico essere vivente che va contro natura. Questo avviene inintenzionalmente. Per l’uomo la realtà o l’apparenza rimandano a qualcos’altro, e sono questi «rimbalzi di significato» ad incentivare l’elaborazione linguistica. È prerogativa del cervello umano cercare sempre nuove strategie per gestire il cambiamento delle cose. Ma qual è la «regola del mondo»? «La quiete», si dice in Natura morta. Per molti è la non-contraddizione. Ma il principio di non-contraddizione è un sogno – «il sogno di non contraddizione» – e va decostruito: se valido riferito ai concetti, è fallibile quando esteso alle cose del mondo. Ruffilli insomma non insegue una verità logica o una sintesi superiore. La sua poetica dell’immaginazione del resto esige il bagno nel magma del contraddittorio, pre-logico o post-logico, non tuttavia per uscirne con una versione coerente, e semplicemente perché questa versione non sussiste, la natura non rispetta-rispecchia una gerarchia di rapporti stabilmente configurati, in particolare eccede ciò che sembrerebbe dogmaticamente fissato dalla logica della ragione assoluta. Di qui la «necessità del paradosso» che scalza le categorie. La molteplicità, la variegatezza, la contraddittorietà della realtà, l’enigma che vi si avverte, vacuum presupposto di plenum, calco premessa e condizione primaria della forma, morte causalmente necessaria ad un’altra nascita, la vita che prosegue solo in forza di una estinzione: motivi non inferibili né giustificabili logicamente con una parametrazione categoriale, o inquadrabili concettualmente. Solo un «paradosso ambivalente», un processo di antonimia, un doppio sguardo, oppure un ossimoro esteso o una contraddittoria simultaneità possono rendere ragione del concomitare dissono del mondo, esprimere la tensione polare, la coincidenza degli opposti, l’«immaginosa verità». Il genere pittorico della natura morta nasceva come forma di libertà rispetto ad altri soggetti figurativi, e la libertà riconduce alla vita e alla scelta. La libertà è una delle istanze primarie di Ruffilli: se l’uomo è condizionato dall’ordine necessario che vige in natura, non gli è con questo preclusa la possibilità di decidere. Da Ruffilli, in Pentacordo: «Lo stato delle cose è uno stato oscuro e fluttuante, dove l’individuo ha una parte attiva inevitabile. Non si spiegherebbe altrimenti, fin dalla sua comparsa sulla terra, l’istinto dell’uomo all’artificio, cioè l’istinto a impadronirsi della realtà, in tutti i modi e con tutte le conseguenze anche negative. L’individuo ha più scelta di quanto non appaia a prima vista… Vuole sapere se credo nel libero arbitrio? Sí, nonostante tutti i condizionamenti e tutte le costrizioni. Ed è da sempre che l’uomo, forzando la situazione, esercita la facoltà di decidere, magari sbagliando e perfino a suo danno. Da un certo momento in poi, l’uomo ha cominciato a interrogarsi sul suo rapporto con lo stato delle cose e a darsi delle possibili risposte. Ai due estremi, troviamo da una parte la convinzione che la realtà sia pura apparenza rispetto alla quale si sia chiamati ad esercitarsi come in una dolorosa palestra, dall’altra la convinzione che la realtà sia il prodotto del puro caso. Sia gli uni che gli altri, comunque, non sembrano affatto rinunciare al margine di scelta…». «Di quanta morte / necessita la vita / per fiorire»? Prendiamo una natura morta, di per sé contestualmente sede di laude dell’esistente (e talora, in assetti trionfali o sfarzosi, manifestazione della vanitas, o al contrario della vanità dei sensi allusa da alcuni oggetti-emblema) e rappresentazione della labilità: la luce – o un bagliore, oppure una spartizione di luce ed ombre crepuscolari – invade oggetti preventivamente svincolati dal loro contesto di origine, enfatizza il loro lato di mistero e, con Mallarmé, i loro reflets réciproques. Restituisce loro tutte le qualità non accidentali che possedevano prima di entrare in posa insieme ad oggetti estranei, prima di avere, con il loro cambiamento di stato, con il loro vicendevole riversamento di proprietà, stravolta la loro ingannevole parvenza mondana. Oggetti incorruttibili, o manufatti, forme inerti che non rinviano al vivente ed elementi del mondo vegetale e animale: il tratto che li accomuna, oltre che una sinestesia diffusa, è una sorta di solidarietà, di cameratismo per questo nuovo accordo. Raggiunto, ma in natura percepito nell’istante medesimo del suo perdersi, come la «fugitive beauté» di Baudelaire. E il loro convegno è con il silenzio, con il congelamento nell’ombra, un incontro di forme inanimate nel loro unisono testimoni silenti della metamorfosi, l’altrimenti forma. Quindi non è un convegno con la morte e il compianto. Ruffilli stesso avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a durare», a «durare anche nell’assenza // per la permanenza del principio». Quale criterio avrà seguíto l’artista nel prelievo degli oggetti da mettere in posa? Perché anche quando gli oggetti paiono negligentemente distribuiti, nella natura morta – come soprattutto in natura – essi obbediscono a leggi necessitanti, esiste una necessità interna, una naturalità, e il caso è solo «un nome / della necessità». …