LAGAZZI SULLO STATO DELLA POESIA
Quarant’anni fa il curatore di un prezioso volume intitolato Il pubblico della poesia (1975), raccogliendo un’anamnesi a caldo delle ricerche poetiche a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, formulava l’ipotesi che la poesia non sarebbe mai uscita dallo «stato di semi-clandestinità» cui l’avevano relegata i movimenti di contestazione e la crociata del politico ai danni del letterario. La sintesi di Berardinelli non aveva sapore di veglia funebre o nostalgica, ma riconosceva un carattere proprio della poesia, il suo passepartout per la vita eterna: proprio perché non ha spazio, la poesia non può nemmeno perderlo, e sarà questo suo adagiarsi ai margini e negli interstizi a far sì che nulla la insidi. In questo senso si può ammettere che oggi la poesia goda di ottima salute (inversamente proporzionale a quella dei poeti), per quanto chi scrive abbia sempre più bisogno di chiedersi perché lo fa, dare un senso a questa specie di colpa, solo in parte attenuata dal distinguo dell’arte, come se scrivere, e farlo bene, non fosse già di per sé sufficiente. Lo sarà quando nasceranno i produttori di poesia, secondo un gergo fatalmente in uso fuori e dentro i circoli accademici, per cui conta chi vanta una “vasta produzione”, dal valore possibilmente scientifico. I critici, quando non guidati da ragioni di studio e di ricerca, si capitalizzano, vomitano titoli, forgiano prodotti di consumo che invecchiano prima di loro. Ci si domanda come possano farsi osservatori del panorama culturale se il loro sguardo si muove alla velocità della luce e le loro idee trascorrono insieme alle novità, alle mode. Ci si domanda, anzi, se lo domanda Paolo Lagazzi ne La stanchezza del mondo (Moretti & Vitali), come non si estenuino in questa smania di inseguire, sistemare, definire. Dovrebbero testimoniare in primo luogo di questa stanchezza, del fiaccarsi delle categorie critiche, che è la sola cosa che li accomuni, invece di fingersi uno smalto, una tonicità che non posseggono. Il tempo della forza, ovvero della paura di apparire deboli, è anche quello del massimo della stanchezza, come mostra bene l’immagine di Marte addormentato in copertina. Allo stesso modo, all’epoca del terrore si è sostituita quella di un’«assuefazione progressiva al terrore» (p. 16), una soglia limbale immune ai toni puri della gioia e del dolore. Sembra che al momento gli scrittori di poesia non abbiano ceduto a tale ricatto, ma ne pagano lo scotto in termini di solitudine, cui li condanna non solo il linguaggio poetico, che è fuori per statuto da un sistema di relazione, ma la quasi totale indifferenza del pubblico dei lettori, e di quei lettori di mestiere che sono i critici. Dato che la poesia occupa il loggione dell’editoria, è giocoforza che i critici aspiranti a una poltrona in platea le preferiscano un genere più appetibile come il romanzo. Oggi bisognerebbe chiedersi non tanto se c’è, e qual è, il pubblico della poesia, né che senso abbia scrivere versi, ma chi sono i critici militanti di poesia. Dico militanti perché in campo specialistico occuparsi di poesia rappresenta in molti casi un valore aggiunto. Ma lo specialismo ha generalmente un pubblico più ristretto e omogeneo, e soprattutto considera la letteratura come un valore in sè, con tutti i vantaggi e i problemi che ne derivano. Ancora più chiuso si fa il cerchio se i nomi li cerchiamo sulle pagine dei giornali, come a dire che è il nostro quotidiano, il qui e ora, che ha perso o rifiutato il contatto con i poeti. La stanchezza del mondo è un libro di critica militante sulla poesia, alla quale Lagazzi ha dedicato quarant’anni di studi, scegliendosi gli autori a lui congeniali, primo fra tutti il maestro e amico di una vita Attilio Bertolucci. Ma si tratta di una militanza peculiare, che si interfaccia con la realtà senza supporti ideologici. È anzi al di là delle griglie del pensiero e delle verità ontologiche (-ideologiche) che si può rifondare, per Lagazzi, il senso di un rapporto tra la poesia e il mondo. «Ciò che resta lo fondano i poeti»: così parlava Hölderlin dal fondo del suo buio luminoso. Lagazzi lo cita nelle pagine introduttive, che hanno un taglio personale (nel senso, anche, dei ricordi che le attraversano), non privo di accostamenti imprevedibili (non c’è argomento che la riflessione del critico non incontri, dallo sport, all’astrofisica, alle nevrosi sociali) e di lampeggiamenti poetici. Alla fine di tutto, ciò che resta è la poesia, con la sua capacità di farsi carico della stanchezza dell’umano in un tempo in cui questo è pericolosamente minato, ma anche «d’immaginare un luogo di grazia, un altrove che potrebbe essere anche il più piccolo dei nostri qui, il più umile e segreto dei nostri passi» (p. 19). Può farlo, per Lagazzi, perché la stanchezza non è solo una resa, ma un viatico, se è vero che bisogna essere stanchi per abbassare le difese e avvicinarsi agli altri. La parte centrale e più cospicua del libro raccoglie trentasei recensioni per altrettanti scrittori, più o meno noti, più o meno recenti (Damiani, Erba, Fiori, Loi, Pontiggia, Ruffilli, Sica, per citarne solo alcuni), alfabeticamente riuniti in un Piccolo sillabario poetico. È uno sguardo in soggettiva, che non pretende di servire canoni e inoculare verità assolute, ma che veicola un’idea della poesia come forma di «pazienza e resistenza» (p. 12), «estremo baluardo dell’umano» (p. 17), «fragola nata sull’orlo dell’abisso» (p. 257. Per questa immagine, tratta dal repertorio delle storie zen, rimando all’ultimo, bellissimo, capitolo del libro). Per quanto la scelta dei poeti denoti chiaramente un’inclinazione al trascendente (ma ben oltre il confine delle religioni storiche), al sacro che è nelle cose minute della realtà come nelle leggi invisibili che governano il cosmo, Lagazzi non cede alle sirene della parola piena, oracolare, ma percorre, e fa percorrere ai lettori, la via della parola umana, che è fragile e divisa, eppure sostenuta da uno slancio vitale, ricompositivo, molto più che un piccolo balsamo per menti dolenti. Al di là dell’accordo con la silloge proposta e le idee che la corredano, un dato indiscutibile è che quello di Lagazzi sia un libro per la poesia, più che sulla poesia. Non gli si addicono i panni del censore, del polemista puro, che esamina le colpe, giudica e manda, o di chi vuol far quadrare i conti a ogni costo con strumenti d’analisi categorici, che condannano i testi a un grigiore esangue. La stanchezza del mondo è anche un libro per la critica come “scrittura”, che non sacrifichi al rigore la fantasia o, per dirla con l’autore, che ritrovi in Hermes il giusto compromesso tra Apollo e Orfeo.