OLTREFRONTIERA DI PASQUALE BALESTRIERE

OLTREFRONTIERA DI PASQUALE BALESTRIERE

Felice rivisitazione della memoria, questa silloge di Pasquale Balestriere Oltrefrontiera, per crinali di luce e cune d’ombra (Edizioni Confronto)ci introduce con infinita dolcezza nel suo mondo poetico, un mondo popolato di fidenti corrispondenze familiari e amicali, di tempi, simboli e luoghi dell’anima, smarrimento e quiete, scoramento e rinascenza; un mondo in cui “Il nudo clavicembalo dell’ore / distilla voci e note di preghiera”. Un tuffo nei tempi andati, un vivido remake in cui il nóstos e il rimpianto giocano, sì, un ruolo da protagonisti, ma come depotenziati, stemperati dentro una cornice di composte campiture, dove i colori più gioiosi e luminosi, ma anche quelli che connotano la sofferenza e il dolore, hanno ormai perduto la forza dirompente dell’attimo fuggente, e ora con più discrezione blandiscono, o graffiano, il cuore: “La marcia è stata lunga e le cadute / tante e tanti i sobbalzi il cuore ha avuto / di gioia. I giorni hanno tirato al petto / coperte, dolcemente è stata sera”. Ma quel che è stato è stato, ed ora, nonostante l’irreparabile volgere degli anni, la vita richiede ancora tutta l’attenzione che merita. Urge infatti, con testarda cocciutaggine, il fluire vitale degli eventi, e non c’è tempo per i consuntivi, perché, come in “Esame di coscienza”, “La vita è storia che non vuol totali”. Non è dunque possibile fermarsi per guardare indietro, perché “Al mare, / al cielo capovolto, all’avventura / ci reclama la trama della vita”. E non si può indugiare, sostare ancora a lungo, nemmeno nei luoghi più amati, come la “Paestum del mio cuore”, dove misteriose e silenti aleggiano “le presenze / numinose, diffuse nel cantico del tempo che si spiega / per bocche di poeti. Anche da lì bisognerà partire, perché “Io”, dice il poeta, “ostia designata, / piego il capo / al dovere della vita / che mi strappa lontano” (Tramonto a Paestum). La vita come dovere, quindi, e un tempo da vivere ancora pienamente, perché la fuga nella riserva della memoria non è che una parentesi interlocutoria, però necessaria al poeta per verificare l’assenza di debiti d’amore e la giustezza delle sue personali scelte di vita. Man mano che si procede nelle tre parti del libro, e in modo più stringente nella sezione “Tempi”, sempre più urgente e serrata si fa la ricerca del senso del vivere, e con più profondo sentire il poeta chiede risposte ai perché del mistero e del male, dell’inconoscibile e dell’alea, chiamando in causa, in primis, la sua stessa coscienza, ma anche interpellando, come “testimoni informati dei fatti”, alcuni grandi spiriti dei tempi moderni, come Montale, Neruda; e non trascurando di coinvolgere, nella querelle, anche immortali cantori del mondo classico, come Alcmane, o come l’amatissimo Orazio. Esemplare, in questo contesto, e stupenda, la lirica “Sorte”,  poesia del dubbio e dell’inquietudine, che illumina di luce rivelatrice la parabola dell’umana avventura, ne annota gli slanci e le cadute, il volgere dei giorni, la tenace ostinazione del tempo e delle stagioni, testimoni alienati e indifferenti alla “sorte” che tocca non solo agli umani, ma a tutti i viventi. Simbolo di tanta distanza è quel “falco appeso nell’azzurro”, epigono del “falco alto levato” con cui Eugenio Montale postula l’indifferente presenza di una qualche immanente divinità. Tutto, di qui, trasmuta in ricordanza, in memoria d’amore e in nostalgia d’affetti; e il poeta ne fa scorta per l’incerto e solitario viaggio nell’ignoto cui s’appresta. Il distico finale plasticamente ci consegna la circolarità del ciclo vitale, lapidaria sintesi dell’esistere e del misterioso fluire del tempo, declinati nell’ossimorica misura del “vivemmo a lungo” e di una “sorte” che “è apparsa breve”. Lunghezza e brevità che, invece di elidersi reciprocamente, dànno corpo, sostanza e lena all’arcano alternarsi dell’alfa e dell’omega. Un libro, Oltrefrontiera (per crinali di luce e cune d’ombra), che vale la pena di leggere tutto d’un fiato e restare in apnea, per poterne assaporare fino in fondo, e tutta in una volta, la cifra di indicibile tenerezza e di commossa adesione alle ragioni e alle stagioni del cuore. E “poesia del cuore” certo la classificherebbe Giorgio Bàrberi Squarotti; una poesia di ineffabile profondità sentimentale e d’ineguagliabile nettezza stilistica, che di un endecasillabo armoniosamente musicale e suadente fa lo strumento privilegiato per un canto alto e puro, ben degno della migliore tradizione lirica del nostro Novecento.

Umberto Vicaretti

Alla volta di Leucade

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