RECUPERO D’IDENTITÀ NEI VERSI DI IULIANO
C’è come un avvertimento per un vagheggiato recupero di identità in questa parsimoniosa plaquette di Giuseppe Iuliano, A passo d’uomo (Delta 3). Si tratta di un impegno che ha classica valenza e chiama in causa il bisogno di ricondurre alla sfera della conoscenza quanto viene scoperto con l’ausilio della sensorialità. A una condizione: restituire a pregnanza di forza realistica l’espressione, con recupero di senso per quanto, annidato nell’inconscio, può assumere rilevanza fondativa del presente. Iuliano lo fa con argomentazioni binarie destinate a caricarsi di significato nella pregnanza metaforica della loro congiunzione. Si tratta in genere di un contrapposto gioco di simboli associati a rappresentazioni di situazioni ed accadimenti in cui trascorrono fattori naturali (oggettivi) e condizioni spirituali (soggettive), sostanzialmente materici o di pensiero, contingenti o immanenti. Possono variare le situazioni, ma il metodo rimane invariato e l’approdo si identifica con il trasferimento in versi della condizione risultante. Il poeta trascorre sul paesaggio naturale ed umano da riscoprire, con assaggi che sono diapositive o illustrazioni che contribuiscono a realizzare una pregnanza di sensi sempre garantiti da un recupero simbolico che interessa tanto la spazialità quanto la temporalità e la contingenza. S’avverte una fine connaturata alle cose che però consente di strutturare il proprio credo. Viene da lontano e si manifesta con reticenza attraverso poche parole/simbolo capaci di rappresentare un frammento di poetica in atto, antica e sempre nuova, all’altezza dei tempi e in piena concordia con quanto detterebbero amor di patria e cipiglio d’uomo. Sostantivi o aggettivi che siano, esse assumono pregnanza di significato in un contesto che sembra voler essere caratterizzato da valenza oggettiva proprio là dove si carica di soggettività lirica. Il poeta sa della friabilità della parola e della sua potenziale molteplicità di significati, “somma di artifici”, per sperimentata consuetudine, e la tratta come mezzo, mai come fine. Ricondotta a strumento di specificità anche simbolica, sapendola parte di un tutto, ora dentro e ora fuori della storia, la parola può consentire operazioni fuori conio come “una crisalide / che chiede a gelsi e more corpo di farfalla” o anche come l’uomo condannato al malinconico silenzio o costretto a fuggire dalle pietre squadrate di ricostruiti medioevi di maniera. Iuliano, cittadino di Nusco, rifugge dal progettare esiti di impegno esplicito anche se con il reale non cessa di fare i conti sollecitando la parola d’inciampo (Montale) ad uscire dal ricovero del bazar /antro della Sibilla, che la custodisce, per bagnarsi diversamente nella vita grazie alla survalenza poetica conferitale dal “trovarobe”/cesellatore. Di qui quella duplice tensione che è possibile avvertire sfogliando, anche da lettore non sistematico, questa raccolta. Ci si può imbattere in costrutti più o meno articolati che propongono un esercizio di artigianale ricerca di archetipi motivanti semplici enunciati per aggregazioni analogiche, o più impegnative preformazioni concettuali direttamente ammiccanti a giudizi di fatto. Neppure il rigurgito di classicità conforta la condizione dell’uomo succubo delle presunte verità, oracolarmente vomitate, senza interpelli, e accolte come “disperate speranze” samaritane disseminate sul “deserto del nulla” di madri in preghiera per figli senza culla (Pietre d’inciampo).
Prefazione