PAOLO LAGAZZI SU BERTOLUCCI

PAOLO LAGAZZI SU BERTOLUCCI

La poesia è  il vero e unico paesaggio del poeta, spazio reale e mentale, esterno e interno, spazio dello sguardo e della parola. Anche Casarola, il paese appenninico cantato da Attilio Bertolucci,  è fermata nel tempo eterno dell’arte, nel tempo allo stato puro dei suoi versi. Eppure questo luogo caro al poeta, dominato dal Groppo Soprano «sorta/di dolomite rosa addolcita dai castagni»- torna attraverso un altro sguardo, che mentre arricchisce  il posto di vacanza di Attilio con i frammenti di una lunga frequentazione amorosa e partecipe, definisce ancor più il significato del paesaggio, legandolo al quotidiano di tante estati, ma estraendone i succhi della poesia. Paolo Lagazzi nella Casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci (Garzanti) si racconta mentre racconta Attilio Bertolucci, un Attilio assai caro e amato, poeta trasparente e misterioso, sciamano e mago, ispirato e ispiratore, e ricrea intorno a lui un mondo («mito, prospettiva, metafora») di radici e di futuro. Non è forse nata lì a Casarola, nel luogo della Casa del poeta, la Camera da letto, l’opera forse più innovatrice del nostro Novecento poetico? E non sono nate in quel piccolo paese tra i monti alcune tra le più importanti poesie di Viaggio d’inverno e delle altre raccolte, a partire dalle giovanili Sirio e Fuochi in novembre, poesie che Lagazzi rilegge in questa sua opera, che tiene dell’autobiografia e della biografia, del racconto e del saggio, unendo nella struttura le componenti di un genere letterario che, dopo gli esempi di Cesare Garboli o di Pietro Citati,  si sta consolidando con nomi di più giovani autori? È stato il poeta Bertolucci a documentare poeticamente, con ardore e pietà, la vita per noi perduta, a far entrare epifanicamente il ricordo del passato nel presente, i luoghi e i volti della sua vita nella poesia. Pittore supremo d’interni e d’esterni, di luci e ombre, Bertolucci nella Camera da letto ha fatto di Casarola il luogo mitico delle origini, ma ne ha fatto anche il teatro struggente di gioie e dolori, dell’allegria del bambino Bernardo «in volo sullo slittino» e dell’orrore della ferocia del  rastrellamento tedesco, che trasforma un pacifico consorzio umano in lutto e sofferenza. Non solo. Nelle poesie i tetti d’ardesia, l’antica casa di pietra, la lucertola scolpita sull’ingresso, i prati profumati di garofanini campestri, i boschi di castagni, disegnano un  paesaggio caro, al quale sono affidati i moti del cuore, un paesaggio la cui bellezza è accarezzata dallo sguardo di chi conosce e teme la perdita e l’abbandono. Ora Lagazzi, scandendo alcuni capitoli sotto titoli che richiamano titoli bertolucciani  (Verso Casarola, At home, Ninetta, Solo, Fogli di un diario delle vacanze, Ritratto di  uomo malato, Ritornare qui), dopo aver rievocato in apertura (Un giorno d’aprile) un ultimo struggente addio nella casa romana di Via Carini, ci riconduce lungo vie familiari, ci descrive soggiorni estivi, ci parla di Ninetta compagna fedele e ospite cortese,  ritorna ad interrogare i versi appenninici, affida Casarola e il suo paesaggio di Terre alte, cieli profondi, così veri e vissuti, all’assoluto dell’arte: «un assoluto di terra e di cielo, recalcitrante ai manierismi novecenteschi, refrattario alle categorie e alle misure». Un assoluto che solo è suo, del poeta e della sua poesia. È vero peraltro che la poesia di Bertolucci risponde ad altre sollecitazioni della vita e della realtà: Baccanelli, cui Vittorio Sereni pensava, durante la prigionia in Africa del Nord, come «casa della cara poesia»; Parma, città dell’amore e della giovinezza, della scoperta del cinema e bozzolo dorato di Sirio, di Fuochi in novembre, della Capanna indiana; Roma infine, mai interamente amata perché terra di autoesilio, ma anche sostanza dei componimenti  segnati dal dolore e dalla malattia, dal pendolarismo senza scampo tra i luoghi più cari e la città «troppo bella» e non sua. Ma è certo che la casa di pietra di Casarola, costruita dagli antenati maremmani e restaurata dalle cure amorose di Ninetta nel 1956 (si ricordi il componimento Restauro di un tetto) e il rustico paese montano sono stati  per Bertolucci la  patria poetica, in cui ritrovare, come Worsdsworth, le «ragioni del suo essere» e della sua vocazione di scrittore e da cui  dar voce, tra sogno e veglia, alla propria invenzione romanzesca in versi. Luogo di vita domestica, il paese di Casarola è stato forse il vero  naturale cartone della poesia che sfiora la prosa, facendo esistere nel poema-romanzo  un mondo perduto, ma riportato al presente dalla memoria involontaria e dal disperato desiderio di fermare lo scorrere del Tempo e la fine delle cose. Chi abbia frequentato a lungo e spesso Attilio e Ninetta nella casa romana (non a Casarola, incontrata da chi scrive solo nel tempo eterno dei versi e ritrovata intatta dal vero dopo la morte del poeta; ma non è l’arte più vera del vero?), chi, si diceva, ha amato il poeta e la sua Musa, ritrova in questo libro di Lagazzi gli stessi riti gentili, la stessa eleganza inglese dell’abito, gli stessi gesti amorosi e pacifici, la stessa armonia di vita di coppia salda e unita, sempre luminosa pur tra le rovine. E risuonano nella memoria gli inviti al lavoro («Dobbiamo lavorare» «Lavoriamo») che, nel salotto dell’appartamento al quinto piano, che «gli usignoli e i merli dalle piante della clinica» (26 marzo) allietavano, avevano preceduto la lettura della Camera da letto, commentata poi per il Meridiano Opere. Inviti cortesi e fermi, quasi il compito di leggere le sequenze rispondesse a piacere e a necessità, quella stessa necessità che aveva guidato la composizione del poeta, la sua immensa creazione. E altri frammenti di conversazioni, dall’ordito ricco e un po’ volatile,  generose di cultura e d’arte,  si affacciano alla memoria, vivide intermittenze del cuore. Ma questo è forse il dono del grande poeta ai  suoi interpreti- amici: far sì che, attraverso l’ascolto e  l’amore per la sua opera, qualcosa di profondo, di vero, d’immutabile trascorra e s’incida fino a far riunire, quasi in un abbraccio intimo, le anime e le parole. Paolo Lagazzi tuttavia, con passo personale, con una consonanza dovuta a lunga intimità, dipinge il suo poeta attraverso i colori e le ore di ventiquattro estati; restituisce il trascorrere dei giorni e le abitudini quotidiane: la passeggiata mattutina dalla casa alla curva che precede il diruto ponte sul Bràtica, le pause  durante le quali componeva i capitoli della Camera,  facendo del «cammino» e della «sosta» (così importanti nel simbolismo del Viaggio d’inverno)  la cifra della sua poesia en plein air  e del bisogno di rallentare la fuga del tempo. Lo descrive mentre  accende il caminetto (quanti fuochi nella poesia di Attilio!); ne richiama il gesto antico con cui versa il vino all’ospite; ripercorre  quel  mondo di boschi e acque e persone (la famiglia proprietaria della locanda Tramaloni presso cui il giovane studioso soggiornava, famiglia funestata dalla morte del figlio ventenne) frequentate con amicizia sincera;  lo accompagna attraverso le linee guida del suo esercizio critico iniziato sin dalla tesi di laurea, la prima tesi svolta sulla poesia bertolucciana e fonte di grande soddisfazione per l’autore. Qui Lagazzi sa anche dire di sé, delle sue letture, del suo cammino verso e con Bertolucci, di chi, come Luciano Anceschi, che pure aveva riconosciuto in Lirici nuovi del 1943 il valore del giovanissimo poeta, ha abbandonato e di chi ha scelto. Così ecco Gaston  Bachelard, chiave per comprendere la rêverie bertolucciana; ecco Pietro Citati, maestro di eleganze interpretative; ecco la cultura zen affacciarsi nella valutazione del rapporto con il vivere; ecco soprattutto lui, il poeta, guida preziosa  lungo i sentieri magici e segreti della sua arte. Un’arte che ha in sé la moralità della pazienza montanara, il sentimento della sacralità dell’esistenza, della sua «luce» e del suo «buio», ma anche della sua sostanza umana, del suo mistero. Su questo insiste Lagazzi nel leggere le poesie appenniniche, sottolineando la qualità simbolica del paesaggio e salvando sempre la sottile ambiguità della poesia, l’essere questa difesa ed «esorcismo» contro il caos, la sofferenza, la morte. Di questo Casarola porta il segno divenendo «il paesaggio più capace d’impennate e strapiombi, di avventure e d’occasioni epifaniche, di bilanci e di rischi radicali; lo scenario più contradditorio e drammatico, più concreto e più elusivo; “una terra per viverci”, e il luogo in cui è più arduo e dolce morire». Per questo a Casarola si può ritornare ascoltando le parole della poesia: di Attilio Bertolucci, riletto dalle nostre voci mentre si cammina lungo i sentieri ch’egli percorreva fino alla Bora del Bosco, dove sedeva di fronte agli antichi capanni di pietra, scrivendo i suoi versi; di altri poeti –Umberto Piersanti e Bruna Dell’Agnese, Paolo Bertolani e Pier Luigi Bacchini, Maria Pia Quintavalla e Daniele Piccini,  Giancarlo Pontiggia e Plinio Perilli – che in lui si sono riconosciuti, riconoscendone l’alto magistero. Perché Casarola, in cui si è manifestata la «sostanza creaturale della vita», è parte di quel destino fatale, che è il destino perenne della poesia. Nella parte più propriamente saggistica Lagazzi, rileggendo testi importanti sotto il bel titolo Terre alte, cieli profondi e coniugando realtà di paesaggi ben conosciuti e interpretazione, si colloca sulla linea critica, che fu di Pasolini e nostra, linea che sottraendo alla comune e diffusa definizione di ‘grazia’ la poesia bertolucciana, la allargò al più segreto e originale dolore dell’esistenza, al pensiero del Tempo precipite. Anche Casarola, in cui il poeta trovò le sorgenti del proprio mondo famigliare e poetico e che tanta parte ha nella Camera da letto, acquista  altri sensi, altre verità. E se, attingendo alle lettere ad amici di anni lontani Lagazzi rintraccia pochi echi da quella terra, se attraverso le prime liriche appenniniche, Torrente (Sirio), Ginestre e i Venditori di flauti (Fuochi in novembre) ci accompagna nel cuore della poesia di quel mondo antico e sonante, rileggendo le liriche di Viaggio d’inverno entra nel vivo della grande poesia esistenziale di Bertolucci. Risentiamo allora la stessa voce che tanto ci commosse nel lontano ’71, la voce del dolore, dell’abbandono, dell’estenuazione, del presentimento di morte, che qualche lampo di luce poteva ferire, contrastando le minacce del vivere. Luce era  la giovinezza dei figli, la figura dell’amata, i colori di un’estate che i versi prolungavano, impedendo il calare del crepuscolo, la perfezione di una giornata d’agosto . Paolo Lagazzi sottolinea, traendole dalla concretezza del paesaggio naturale e umano, le virtù della pazienza, della fatica, dell’imperfezione e dona lo spessore e la verità del luogo arido e arcaico ad un mondo poetico altamente simbolico, sì che i motivi dell’ascesa e della discesa, della vertigine  e della quiete, del ritorno alla casa illuminata, acquistano nuove ragioni. Persino i versi supremi del dissanguamento, ricolmi di disperazione e di voluttà d’annientamento, di Lasciami sanguinare sulla strada, trovano ora i confini paesaggistici in cui nacquero (la «polvere», l’«antipolvere», l’erba, i rami di castagno e le acque del Bràtica) sì che la «curva via» oltre la quale è la salvezza diviene spazio in cui culmina scenograficamente un rito di infinito affanno e di speranza domestica. Allo stesso modo  la Casarola di Lagazzi ci fa ripensare ad uno dei  componimenti più alti O cieca raccoglitrice che celi intera, investendo  la «sosta», «punto incerto» tra luce e tenebra, tra vita e morte, del colore di quella terra arida e povera, del sentimento  della precarietà del vivere, che ha innervato la poesia di Bertolucci. Ci sia concesso infine un cenno alla Prefazione Con Paolo L. di Bernardo Bertolucci. Giocata sul filo dell’ironia e insieme dell’emozione («Sorpreso, commosso, smarrito»), di un’emozione «così intensa da diventare quasi indescrivibile», comunica il pensiero della liturgia sottile, della strategia segreta e coinvolgente, della «mappa segreta e accuratissima» dei luoghi in cui è avvenuta l’identificazione tra il poeta e il suo interprete-amico-testimone. Luoghi da entrambi esplorati, intimamente conosciuti nella suprema «illusione della poesia», in quella «bolla poetica» del padre, in cui «nessun altro aveva mai avuto accesso», «bolla» da cui i figli avevano cercato «scampo», ma in cui Paolo L., come affettuosamente veniva chiamato, aveva invece trovato senso e conforto.

Gabriella Palli Baroni

Patrie poetiche. Luoghi della poesia contemporanea 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto