HOTEL DIEU DI IRENE SANTORI
Quella di Irene Santori, Hotel Dieu (Empiria), è una voce che parla a tu per tu con il cielo, trascina a terra l’astrazione celeste e la prende per il bavero, la guarda negli occhi come una nuova entità umana, esprimendo fin dal titolo una sacralità decisamente femminile, primitiva e postcontemporanea, esacerbata e virulenta, talvolta minacciosa come un’invettiva scagliata verso l’anonimo alto dal basso profondo della terra, che ha pronunce interiormente dolci, piene di sangue e di circolazione e contiene, soprattutto, il privilegio di essere abitato e mortale. La realtà di questa terra vivente arriva a noi vagliata da uno sguardo intento – più che attento – al sacro e, proprio perché permette a se stessa di adoperare la premessa (e la promessa, lo vedremo) di uno sguardo simile, Santori ci può rappresentare in tutta scioltezza il quasinulla, i fatti quotidiani, la propria spicciola vicenda umana. Perché i meri fatti, quando sono osservati da una tanto coinvolgente distanza, cominciano a brillare di luce propria, le persone si muovono come in un tempio, che alle volte rovina sollevando una polvere che copre anche la risplendente povertà dell’oro e alle volte si lancia verso il cielo, in un impeto chiaro e tutto azzurro. Leggere questi testi equivale a passeggiare in una serie di quadri sacri, di stazioni di una passione piccola, dove ciascun bozzetto è conchiuso in se stesso, ma al contempo rimanda al duro filamento luziano, che lega i vivi ai morti e creatura a creatura. Avanziamo dunque, passando dalla tenerezza feroce di una filastrocca alla cruda installazione di una figlia adulta che si urina nei jeans mentre visita la madre ricoverata in terapia intensiva, al tono cantilenante di alcune strofe che servono a placare una fredda e dura insonnia, al contenuto e commosso resoconto delle ultime visite al padre morente, alle stanze d’amore e tenerezza per l’amato. Arrivati in fondo, ci accorgiamo che Irene Santori ci ha presentato un interno di varia famiglia, un interno umano, i suoi legami e legamenti invisibili, la radice terrena di una vita che serve solo a guardare. Anche quando è presente, infatti, l’io poetico è estraneo a se stesso, si pone in scena come una equivalenza, un simile: simile agli altri e agli oggetti del mondo. Ed è proprio l’assenza di protagonismo della protagonista, l’assenza di protagonista poetico in presenza di protagonista scrivente, a dare la sensazione di una equanime popolazione della terra. Ogni cosa ha valore, ogni sospiro. Santori non scrive se stessa, bensì si adopera per dire, si usa, sciorina la sua esperienza per rimandare a un mondo più compatto e più vasto, dove tutti possiamo riconoscerci in quelle scene minime e già emblematiche, perché sono state assunte dalla parola. Piccole cose che, nominate, diventano alte. Abbiamo riscontrato un procedimento simile nei testi di Elena Buia, altra autrice che cava luce e simboli dal quotidiano. Ma il dettato di Buia ha una tonalità più soffice: Santori è viceversa abitata da un’asprezza a volte cruenta, certamente perché gli episodi che riporta sono a volte reportages di estremo dolore, ma anche per la presenza di un artiglio interno che sente il bisogno di incidere, graffiare, intagliare parole dalla fibra della sua carneviva, più che scriverne. Provenuta, come Buia, dalla conoscenza intuitiva della vivente e sconfinata fertilità del sacro, a una pratica del limite e della miseria, Santori emana una modalità fiera e rovente, da furia medioevale e ancora più antica e intera: ossea, midollare, ferina: di animale che, come tutti gli animali umani, era predisposto al bene e adesso soffia contro la sofferenza che ingiustificata ci colpisce, pone dighe di parole al dilagare temuto del dolore. Santori manifesta la sua paura e la rabbia reattiva della preda che ha intravisto il lampo del fucile. Così, sul nero fondo del lutto e di tutta l’insonnia, si staglia l’unica risoluzione: credo solo nei miracoli. La decisione è credere all’impossibile, desiderare quello che non si vede eppure ci verrà dato, desiderare il bene con il silenzio del corpo animale, assumendo la veglia di ogni animale: mentre qualcuno ci copre la schiena, perché infine dormiamo.