NERANEVE DI CLAUDIA MANUELA TURCO
“Storia di antiche violenze”, è questo il sottotitolo del poema recentemente pubblicato da Brina Maurer, alias Claudia Manuela Turco, Neraneve e i sette cani (Italic). Pur essendo scritto con un carattere relativamente piccolo attira l’occhio e richiama un pensiero, una riflessione. In punta di piedi e di penna, come è nello stile dell’autrice, senza sbraitare o predicare, ci conduce a osservare la frase come in una lastra fotografica. Siamo portati a vedere per contrasto che quell’aggettivo, “antiche”, in realtà cela e racchiude il suo contrario, o meglio una connotazione priva di demarcazioni cronologiche: le violenze non sono mai antiche, sono sempre presenti, nella memoria e nei gesti. Sono fuori dal tempo, anzi, sono proprie, purtroppo lo vediamo ogni giorno, di ogni epoca. Partendo da questo sottotitolo rivelatore, possiamo cogliere meglio anche il tono e il sapore del titolo, “Neraneve e i sette cani”. Brina Maurer utilizza il filtro dell’ironia per proteggere se stessa e chi la legge dalla crudezza del dolore e della violenza. Con adeguata e costante coerenza, con la convinzione e il sentire manifestati in molti dei suoi libri, ossia l’equiparazione assoluta tra uomo e animale, sembra utilizzare nei confronti dei suoi lettori l’atteggiamento che adotterebbe per proteggere i suoi cani dal frastuono dei fuochi d’artificio o perfino da deflagrazioni molto meno ludiche: ci distrae, ci conduce con le parole sui sentieri di un gioco protettivo in grado di rendere il vero meno lacerante e il rumore meno traumatizzante. Ma la realtà rimane. Anzi, questo suo modo di porgercela con delicata pacatezza ci consente, in seguito, di cogliere con più evidenza e urgenza la dicotomia fondamentale, quella tra l’affetto, connotato fondamentale dell’umanità autentica, e, sul fronte opposto, tutto ciò che è alienante e “disumanante”. Utile punto di riferimento in quest’ottica è la lucida e partecipata Introduzione scritta da Luigi Fontanella, in cui, in vari passaggi, si mette in evidenza la nudezza, il candore e l’atroce, sublime rivelazione che costituiscono il tessuto di questo libro. “Colpisce – osserva Fontanella – l’allure diaristica, mista a una delicata affabulazione fiabesca, ora tragica, ora tenera, ora straziante, ora soave”. Siamo di fronte a una ricchezza di ossimori che rivelano la densità dell’ispirazione, celata, o meglio proposta, con un sorriso lieve ma profondo, sotto la forma di una fiaba apparente. L’ossimoro è la figura retorica più adeguata non solo per esprimere sensazioni contrastanti ma anche per gettare un ponte tra la realtà nuda e cruda e quella che, a dispetto di tutto, può costituire un approdo diverso, la sponda di un’altra terra che ancora possiamo scorgere al di là della foschia. L’ossimoro è una delle “armi” con cui la poesia combatte la sua ininterrotta battaglia, per dire, e per dirci, che non necessariamente le cose debbono andare sempre come vanno e che la violenza, quella antica, quella moderna, quella senza tempo e senza cuore, non sempre devono averla vinta su ciò che di bello e di umano ancora persiste. Il riferimento all’Introduzione è utile anche in questa circostanza per rafforzare il concetto facendo ricorso diretto ed esplicito ad alcuni versi dell’autrice: “con lo sguardo/ in un cielo stellato,/ […] bagnare le ciglia/ degli umori della notte./ Nell’eterno abbraccio/ la catena si libera dei ceppi/ e il giorno si fa luce verde”. Il commento di Fontanella a questi versi parte da questo poema e si estende a considerazioni di più ampio respiro. “La Poesia può, allora, allungare la sua mano salvifica; la Poesia – dico – che, sola, è in grado di armonizzare un corpo e un’anima dilaniati”. Ci vengono fornite qui alcune delle parole chiave, che possono permetterci di addentrarci sui sentieri del libro. Armonizzazione, innanzitutto. Mi sembra che questo libro nasca da un progetto che unisce, come in un fertile e complesso amalgama, “materiali”, suggestioni e istanze diverse. Mette a fianco, ad esempio, la forza sintetica della poesia con la capacità della narrativa di proporre un racconto seguendo le varie tappe di un’evoluzione, un progresso, una Bildung. Il libro affianca inoltre, fin dalle prime pagine, la realtà, quella “nudezza” dell’essere e del dire a cui si è fatto riferimento sopra, con la costruzione immediata di una sorta di “mitologia privata”. Fin dai versi iniziali il tono e l’atmosfera sono da creazione di un mito, una sorridente ma intensa “mitopoiesi”. L’esordio è questo: “Cristallo di roccia/ la neve sui boschi di Raíbl/ mentre Neraneve veniva alla luce/ tra guizzi di sangue e sprazzi d’acciaio”. E solo un passo più avanti, un attimo oltre, “Figlia unica, dopo quattro fratelli nati morti:/ emorragia di feti alati,/ nel fetore del ventrecaverna/ nella notte calata in pieno giorno,/ per sempre tali nell’afrore di macchia nera”. Il mito, la filosofia, forse Platone, forse e certamente soprattutto la sacralità della vita, con tutta la sua fragile tenacia, con il rispetto e l’affetto autentici di chi ha sempre fatto del proprio amore per gli animali un tratto essenziale non una posa di maniera. Brina Maurer anche in questo suo poema sceglie di fare riferimento agli animali per parlare, nel profondo, al di là delle metafore e delle simbologie, sostanzialmente dell’uomo, del male e del bene, della violenza e del suo contrario. Il vocabolo che sembra più appropriato a definire questa ricerca in chiaroscuro è quello più semplice in apparenza, “amore”. In realtà è il più complesso, sfaccettato, sfacciatamente dolce e crudele, eternamente soggetto a infinite minacce, imperfezioni, egoismi, ricatti, a quel potere assoluto di dare la vita e di toglierla. Simile, in questo, alla maternità, a quella nascita con cui si apre il libro. Coerentemente, la stirpe dei cani protagonisti assume quasi i contorni di una generazione di semidei, carnalissimi ma protetti da un’aura mitica, quasi un filtro, una membrana protettiva contro la sorte, il caso e la crudeltà, soprattutto umana. Il libro è basato su una precisa sequenza cronologica. Ma, si sa, Cronos è allo stesso tempo vittima e carnefice, le fauci che divorano e il cibo stesso. Quindi la Maurer è portata a rendere la sequenza temporale in qualche modo sfumata, pur nella sua esattezza. La avvolge di una memoria che è al contempo sogno e proiezione in un futuro ulteriore, ancora non nato ma già presagito, di sicuro auspicato in qualche luogo profondo della mente e del cuore. Questo libro è poesia ma anche un racconto in versi e una lunga e appassionata metafora sui temi più cari all’autrice, il rispetto di ogni forma di vita e di esistenza. E, con essa, correlata ad essa, la resistenza, l’opposizione ad ogni forma di guerra e di sopraffazione. Non per una mera posizione di estetizzante generosità. Per una necessità profonda, piuttosto, per un’urgenza, diventata con il tempo anche il Leimotiv dominante della sua scrittura. “Non importa più sapere la verità,/ non importa più sapere di chi sia la colpa./ Son trascorsi mesi e anni/ di decadimento cognitivo”. Sono questi i versi con cui il libro ci conduce gradualmente verso il suo finale, apertissimo. Lo scontro, epico e concretissimo, è quello tra Biancaneve e Neraneve. Tra il bene e il male, in fondo, o tra la realtà e la fiaba, o, forse più appropriatamente, tra noi e quella parte oscura che non ci consente di cogliere la ricchezza delle ambivalenze, anche quella fondamentale tra la nostra parte razionale e quella più autenticamente animale, istintiva, non condizionata. Non ci resta che sperare, allora, nell’arrivo di “spiriti benevoli” che creano “vortici di vento favorevoli” e “tiepide spirali di fumo” che avvolgono “i cuori randagi”. Tutto questo potrebbe darci la voglia di “rivivere/ all’infinito/ la stessa storia”, ascoltando quella “musica delle farfalle [che] si spegne all’indomani”, come recitano i versi di Marco Baiotto citati alla fine del libro. Oppure, magari, provando ad essere noi quella stessa musica.