L’ESPRESSIONISMO DI JOLANDA INSANA

L’ESPRESSIONISMO DI JOLANDA INSANA

Con Jolanda Insana se ne va l’ultima fattucchiera della lingua poetica novecentesca, la poetessa dell’alterco espressionista, il rovescio di Quasimodo e l’altra faccia di una terra, come la Sicilia, feconda di grandi narratori ma avara di veri poeti. È pur vero che Insana, nata nel 1937 a Messina, dove si sarebbe poi laureata in filologia classica, era originaria di Monforte San Giorgio, dunque di quel lembo tirrenico del messinese segnato dalle presenze di Lucio Piccolo e Bartolo Cattafi, al cui cospetto i versi di Insana stanno come la prosa di D’Arrigo a quella di Vittorini (e non è, sia chiaro, un giudizio di valore). La lingua poetica di Insana non nasce soltanto da un’applicazione della funzione Gadda o dalla mislettura del magistero di Amelia Rosselli, ma anche dalla riduzione a filologia inventiva, se mi si passa l’ossimoro, dell’indole espressiva dei siciliani, sempre oscillante fra incantesimo e crudezza, fra gelsomini e coliche renali. Il fondo paremiologico di Sciarra amara, la silloge con cui Giovanni Raboni scoprì Insana nel 1977, e dei libri successivi ne è la dimostrazione. Quel titolo d’esordio, come spesso accade ai poeti, è davvero emblematico, riassuntivo e insieme premonitore, in quanto condensa il tema fondamentale di Insana, cioè l’alterco, la struttura dominante della scrittura, cioè il dibattito in forma di bisticcio che introverte e polemizza un genere originario della poesia siciliana e, più in generale italiana, come il contrasto e insieme lo trasforma in un teatro tutto mentale, e la sigla stilistica di quest’autrice, un espressionismo amaro e sciarrero. La corporeità, anzi la vera e propria carnalità, della poesia di Insana passa attraverso la prevalente sollecitazione del gusto, a fini non esclusivamente metaletterari (benché, si sia parlato, a ragione, di parola agra, aspra e, per l’appunto, amara). La Sicilia, che Insana ha lasciato nel 1968 per trasferirsi a Roma, in quella via dei Greci ch’era tutta sua (come ha ricordato l’amico Elio Pecora in un’indimenticabile poesia di dedica) e dove ieri è morta, rivive nella sua poesia perché si è impressa una volta per sempre non già nelle pupille ma nelle papille: gli unici momenti di struggimento di questa poesia sono legati al gusto, che per un siciliano veicola irrimediabilmente la nostalgia della madre, figura cui del resto pertiene il probabile capolavoro di Insana, Più non riconcilierà Abele e Caino ne La tagliola del disamore (2005). È questo un libro del materno fra i più toccanti e tremendi nel nuovo millennio, a partire dall’insostenibile poemetto d’apertura, La pietanza votiva, chiuso da una delle rarissime comparse del dialetto nella poesia di Insana, ovvero dalla straziata invocazione «matri bedda / matri ranni». L’espressionismo non è che un ermetismo rovesciato, nel momento in cui ruota attorno a un detto: se davvero l’ermetismo di Quasimodo origina dalla rimozione di un eccesso di sensualità, perseguita attraverso un estenuato furore di astrazione, l’espressionismo di Insana si traduce in un caparbio furore di matericità, forse a partire da una violenza degli uomini e della natura. Non è un caso che la poetessa non abbia quasi mai fatto ricorso al dialetto, lingua non già della manipolazione ma dell’autenticità, preferendogli un grottesco impasto a base italiana e abbia sempre tenuto lontane le forme della lirica per quelle della recitazione e del poemetto ellittico, sostanzialmente non narrativo. Basterebbe mettere a confronto Il bombardamento ne L’occhio dormiente (1997) e il suo corrispettivo dialettale, U bummaddamentu in Satura di cartuscelle (2009), per rendersi conto del livello di esposizione che comporta la parlata monfortese: il dialetto è traditore, perché mette a nudo ciò che si ha veramente da dire. O leggere i frammenti dialettali dell’oratorio Per il centenario del terremoto di Messina, sempre nel libretto di cose extravaganti rispetto al volume Tutte le poesie (1977-2006) del 2007, poi completato, forse solo provvisoriamente, da Turbativa d’incanto nel 2012. Non sappiamo, o meglio non so, quale “bucato” poetico (vista l’abitudine dell’autrice di stendere i testi ad asciugare al fumo delle sigarette su veri e propri fili all’interno della sua abitazione) fosse appeso nella mansarda di Insana al momento della morte, quindi in attesa di stampa. È notissima l’autodefinizione di «pupara» compresa in Sciarra amara, inizio di una trilogia dell’alterco fra la vita e la morte, la lingua e il dialetto, la poesia e il poeta, completata dal vero e proprio libro d’esordio Fendenti fonici (1982), o lo «sbraitar cantando» del suo libro più celebrato, La stortura (2002), anche per la concomitante vena civile; ma a me sembra che nella sua carriera di oprante metafisica, metalinguistica e metapoetica, per quanto accanitamente fisiologica, s’intravveda anche il limite del suo teatro: il pirandellismo. Così come nella sua ininterrotta fedeltà a una vocazione di «scannaparole e gabbalessemi» s’intravvede forse il rischio del suo espressionismo, che è poi la pedanteria del virtuosismo o, se vogliamo, di ogni sperimentalismo. A me sembra che i versi più belli di Jolanda Insana siano quelli in cui la Sicilia affiora, forse involontariamente, nella sua indomabile prepotenza e pietà gustativa, inscrivendosi nel dominio del materno: nessuno potrà più mangiare uno dei piatti poveri nominati da Insana senza pensare insieme alla sua terra e alla sua poesia. Nessuno sa che cosa sia la Sicilia se non ha mai provato nostalgia per una cosa da niente come il biancomangiare. E nessuno come Jolanda Insana ha saputo parlare la lingua della fame.

Carmelo Princiotta

PoesiaBlogRainews

 

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