PALAZZESCHI L’INCENDIARIO
Aldo Palazzeschi mette in atto una versificazione giocata sul piacere, irragionevole ed impudente, della pura sonorità. Basta citare la canzonetta “E lasciatemi divertire!” della raccolta L’incendiario per capirlo: “Infine io ò pienamente ragione, / i tempi sono molto cambiati, / gli uomini non dimandano / più nulla dai poeti, / e lasciatemi divertire!” Viene maliziosamente da pensare se questo modo di concepire il ruolo e la condizione del poeta non sia dovuto, in realtà, ad una mancanza di talento poetico, per cui l’autore si giustifica adducendo come causa dell’assenza di una “vera” (tradizionale) poetica al mutamento dei tempi e dei gusti del pubblico… Secondo il poeta il pubblico non è più interessato alle ragioni della poesia che perde di valore sociale (un po’ come avviene in D’Annunzio): non c’è più domanda e di conseguenza cambia l’offerta poetica che non può essere più quella tradizionale. E si fanno avanti le buffonerie, il grottesco, il divertimento, la presa in giro, il paradosso, il motto di spirito; il poeta è un clown che sollecita gli sberleffi, smantellando l’io lirico: “Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia”. L’animo del poeta, che viene messa a nudo, è una maschera che riduce a merce la propria arte. Come ha notato Antonio Saccone nel saggio “Qui vive/sepolto/un poeta”, Palazzeschi non è interessato a trarre dal trattamento burlesco delle opere tradizionali di pensare e di sentire indicazioni volte a rifondare le tavole della poesia e del mondo. Il senso alienato, irrigidito, svuotato di quelle opere, è mandato in frantumi e snaturato in non-sense, il richiamo al pubblico intelligente, sollecitato ad esercitare il riso dissacratore sugli stereotipi culturali, a smascherarne, le convenzionalità, distanzia sensibilmente Palazzeschi dalle argomentazioni marinettiane, in cui quella componente fondamentale che è la partecipazione del pubblico funziona nel senso dello scontro permanente. A differenza di Corazzini che patisce un luttuoso vittimismo, Aldo Palazzeschi potrebbe essere definito un nichilista giocoso come dimostrano i seguenti versi: “Avete dei pensieri neri? / Veniteli a svagare / dentro i cimiteri”. Fra le ultime opere uscite dalla sua penna all’alba degli ottant’anni troviamo “Il buffo integrale”(1966) in cui lo stesso Italo Calvino riconosce un modello per la propria scrittura, la favola surreale “Stefanino” (1969), “Il Doge” (1967) e il romanzo “Storia di un’amicizia” (1971). Negli ultimi anni della sua vita è insignito di numerosi premi e riconoscimenti, a testimonianza del grande esempio che aveva rappresentato per intere generazioni di letterati. Muore quasi novantenne nel 1974 a Roma. Aldo Palazzeschi non si è mai sentito completamente di appartenere ora a questa ora a quest’altra corrente. Meravigliose e molto indicative per la sua poetica, sono però queste parole che affidò alla rivista “Lacerba”: “bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride… Bisogna rieducare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente…”. Aldo Palazzeschi in fondo è stato questo: ironico, beffardo, sognatore, disimpegnato. Futurista, ma non solo.