GIORGIO VIGOLO POETA PLATONICO

GIORGIO VIGOLO POETA PLATONICO

Giorgio Vigolo (Roma, 3 dicembre 1894 – Roma, 9 gennaio 1983), nome che ai più dirà poco o niente, è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta Scuola Romana, formatosi sulle riviste “La Voce” e “La Ronda”. Assimilatosi, in certe fratture al sapore ungarettiano e in altre alla scrittura di un Palazzeschi, Vigolo obbedisce, pur riconoscendogli una certa modernità, ad una diversa idea della poesia. La cultura di Giorgio Vigolo potrebbe essere collocata tra l’estetismo di D’Annunzio e la dimensione demonica di Goethe, caratterizzata da un’ansia profonda di ritrovare un’armonia preesistente al tempo; si tratta di ansia filosofica? Certamente è una forma conoscitiva che dà vita ad una nuova forma di poesia molto suggestiva, fatta di immagini e di allegorie. Prendiamo il seguente frammento: “Da strade di notte … / un’improvvisa porta / s’illumina di statue.” Al centro della poesia vi è il mito platonico della caduta di un ordine supremo, con il desiderio di ricomporre l’armonia perduta; non è difficile capire da quali fonti abbia attinto il poeta romano: principalmente ai mistici e agli esoterici. Alla base vi è sempre il celebre mito della caverna di Platone, da cui, a sua volta nasce una mistica. Giorgio Vigolo si sente un mistico toccato dalla Grazia e più che un mondo “organico”, egli disegna un movimento: le vicende di un’attesa e di un raggiungimento, segnati da momenti ispiratori. Afferma lo stesso Vigolo a proposito della propria arte poetica: “Facciamo che quel mito della caduta sia proiettato nel tempo: e i millenni appariranno come un varco cieco, che un attimo, un attimo solo, quello del ritrovamento, cioè della poesia, per miracolo abolisce, e riscatta.” Il poeta romano cerca la nascita di una determinata poesia, di quella che, come dice lui stesso, ritrova la misura e la schiera, l’agmine dei segni primieri e li restituisce al dettato antico. A rappresentare quell’ansia di ricerca dell’armonia, non basta più un simbolo esterno e oggettivo, come nota Giacomo Debenedetti; occorre invece una figura che abbia l’intima esperienza della caduta, che senta la sofferenza e il richiamo a quell’ordine supremo. C’è quindi bisogno della forma umana, “da oscuri segni e silente eternità”, calata “alle feste del sangue”: … / s’equilibra in me l’arcano / albero conoscente; e, se la luca / beve dall’aria, un più profondo filtro / trae dalla terra e lo nutrisce morte.” Ed è proprio la figura del corpo che rievoca quell’armonia dalla quale esso proviene; in questo modo il corpo è assunto dal poeta a simbolo inconscio ed oscuro delle corrispondenze in cui Vigolo cerca la poesia. Impossibile quindi che il corpo non crei arcani e fantasiosi messaggi: i sogni, protagonisti assoluti di questa epoca, atti a svelare i misteri più occulti della nostra vita; e non è casuale che Vigolo abbia intitolato una sua raccolta di poesie Conclave dei Sogni, sogni spiegati in immagini e melodia. Per quanto riguarda l’ambientazione, il poeta petrarchizza i paesaggi e l’arte con cui compie questa operazione deve una buona parte del suo ascendente ad una esperta abilità di illustratore. La presenza del corpo inoltre consente che nella realizzazione dei personaggi interiori, il poeta debba mettere in relazione ogni cosa con una testimonianza del corpo stesso, una sorta di contatto fisico: “Malinconia d’esistere con questo / volto remoto che ci esprime l’anima / e la sua storia e i giorni alti e perduti, / senza più averne la memoria e il senso. / Scruti meglio la pietra; in selve amare / più domestica lingua hanno le foglie / e i paesi si leggono; s’intende / l’innocenza dei monti. Ma l’umano / viso, il tuo stesso, che ti senti in carne / fitto all’essenza, che vuol dire? / Indaghi / inutilmente questa tua persona / che sempre hai teco e nei notturni vuoti / s’ingrandisce di sogni, apre il suo libro / su figure dolcissime e tremende. // E’ allora che prendendo del tuo buio / una rapita conoscenza, credi / finalmente di leggerti; decifri / lettere e i nomi sciogli. / Illuso! in altro / specchio t’appari. O dispieghi in vaste / epoche d’astri e spaziati cosmi / o stringi i tempi in questi sensi d’uomo, / solo saprai di non saper chi sei.” Vigolo ci offre una classicità corposa, sensuale, barocca in conflitto con amori terreni come dimostrano anche le prose  La città dell’anima, (1923), Canto fermo (1931), Il silenzo creato (1934), che hanno spesso il rigore del poemetto. Oltre ad un’ottima antologia dei Sonetti di G.G. Belli, Vigolo ha curato la traduzione di liriche di Hölderlin e del Meister Floh di Hoffmann. Giorgio Vigolo ci fa capire come dignità e bellezza formale siano elementi indispensabili per sostenere una poesia, per dare vita all’incanto letterario e ad una tensione conoscitiva.

Annalina Grasso

900letterario.it

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