L’INDELEBILE NONNULLA DI CATTAFI
“L’osso, l’anima è uno dei libri più belli, più ‘pesanti’ di questi anni. Per conto mio (…) è la testimonianza più alta e organica (…) resa in questi anni (…) da uno scrittore della cosiddetta quarta generazione”. Sono passati quarant’anni da quando Giovanni Raboni, dalle colonne di aut aut, arrischiava questo giudizio audace ed apodittico su Bartolo Cattafi, ancor più audace se si considera il contesto letterario cui esso fa riferimento (è la stagione del Gruppo 63, di Nel magma di Luzi, delle Poesie in forma di rosa di Pasolini…). Da allora Bartolo Cattafi ha poi pubblicato altre sette raccolte poetiche (oltre a qualche plaquette); è deceduto ad appena cinquantasette anni nel ‘79; ha patito l’esclusione dalle più autorevoli antologie della poesia italiana del Novecento (Sanguineti e Mengaldo); è finito in una dimenticanza pressoché generale. Sino a che, da qualche anno, l’attenzione che merita sembra finalmente rinascere, il suo nome spuntare più di frequente nelle pagine di pubblicazioni di vario genere o sulla bocca dei lettori. Merito dell’Oscar curato da Raboni e Vincenzo Leotta (2001), in primo luogo; ma merito anche di scrittori e studiosi che stanno comprendendo e dichiarando ciò che Luigi Baldacci, fra gli altri, aveva compreso decenni fa, e cioè che Cattafi è probabilmente uno dei massimi poeti del Novecento italiano. … Le carte cattafiane nascondono tuttora materiali inediti di prima qualità. Se ne accorse Marco Forti, quando nel 1999 commentò su «Antologia Vieusseux» (14, 1999) 24 inediti «degli anni 1971-73», senza per altro riprodurli; dallo stesso faldone cui ha attinto Forti abbiamo tratto le poesie presentate qui per la prima volta, tutte verosimilmente contemporanee a quelle confluite ne La discesa al trono (1975) e in Marzo e le sue idi (1977), e perciò risalenti agli anni 1972-73. Si tratta di dodici testi accuratamente scritti a mano da Cattafi su fogli sparsi, privi di correzioni e dunque apparentemente apprestati per un’eventuale pubblicazione e poi invece esclusi da tutte le raccolte. Non è possibile decidere con sicurezza il motivo del ripudio di tali testi; si può però ipotizzare, anche sulla base della testimonianza di Raboni, che l’editore imponesse qualche limite di spazio all’esuberanza del Cattafi degli anni Settanta: basti osservare che alcune delle sue ultime raccolte (L’aria secca del fuoco e Marzo e le sue idi) presentano i testi uno di seguito all’altro, non rispettando cioè l’usuale rispondenza biunivoca tra poesia e pagina. Sia come sia, questi testi ci paiono pienamente risolti e del tutto meritevoli di essere affiancati a quelli editi nelle raccolte citate, e offrirli in queste pagine costituirà, se non altro, un ulteriore contributo alla rilettura di questo notevole poeta. Si tratta di testi del tutto coerenti con la produzione cattafiana degli anni Sessanta e Settanta: vi si riconoscono immagini, allegoriche o allusive, che si configurano come tenacissime stelle fisse all’interno del cosmo ideografico di Cattafi: si vedano i «metalli veloci» di Mani avanti, proiettili che schizzano su un binario e che possono richiamare alla memoria la macchina metallica di Qualcosa di preciso, con un di più di allarme, però, lo stesso che comunicano i testi più claustrofobici de L’osso, quelli in cui l’io si assottiglia sino a coincidere con la propria Sagoma – titolo di testo e di sezione – stampata contro un muro ed esposta alla mira di un nemico imprecisato; o si consideri la dicotomia implicata in Sfatare, dove le «calde luci taglienti» annullano l’umido e l’ombra della foresta, in una pulsione all’ordine che in molte poesie degli anni Settanta (specie de L’allodola ottobrina) confligge con la fobia opposta della immobilizzazione, della neutralizzazione di una Dismisura che in un testo omonimo e memorabile dell’Allodola è allegorizzata per mezzo dell’immagine di una rabbiosa quaglia in gabbia. Una bipolarità simile dimostra anche Alfiere, in cui il paradosso nasce dall’improvviso gap che interrompe e inverte la consequenzialità logica degli eventi: così un «impettito / alfiere» diventa unica possibilità di salvezza, a patto però – e l’immagine è straordinaria – che getti la bandiera e vada a gridare «Scacco» in faccia al proprio re. In Un discorso un interlocutore, che forse non è altri che l’io, siede nervosamente in una stanza, situazione che attraversa tutta l’opera di Cattafi, da Una stanza in rue de Seine del 1954 – semplificando – sino al lampo di Non si evade dell’Allodola («Non si evade da questa stanza / da quanto qui dentro non accade») e ben oltre. Alle «foglie unanimi / girate verso il nulla» con cui questo inedito si chiude risponde la pienezza dei due brevi testi successivi: la freschissima e sorprendente metafora dell’»atlantico del letto» della splendida Al mattino, e l’altra del «mare spalancato della rosa» di Come le cose. L’io può pure mascherarsi da silenzioso Stilita, ridotto a «uno sgorbio ondeggiante nel vento», che ignora quel che accade alla base della sua colonna; oppure può identificarsi, come nella bella e problematica Per strada, con un volto che etimologicamente diventa persona, maschera pirandellianamente non più rispondente al nome che la porta (tema anche questo più volte frequentato dal Cattafi maturo: basti leggere l’incipitdella coeva Proposta, tratta da La discesa al trono: «Ora che siamo seduti tutti in giro / la mia proposta è di toglierci la faccia / e tagliarla a strisce /…»). Il pronome di prima persona poi, come in molte poesie de L’osso, l’anima, può tornare ad essere declinato al plurale: succede nell’inquietante favola kafkiana Allo scoperto, dove l’io diventa un «noi» composto di uomini ridotti ad «ombre», che attendono la fatale caduta di «altri» all’interno del loro stesso allucinato circolo metafisico; mentre in Non credo l’io riprende decisamente la parola, sconfessando ciò che auspica in Sfatare, ovvero le «croste opprimenti / che negano il volo», le sbarre posticce che impongono un ordine percepito come falso e innaturale, se il poeta è in grado di vedere l’albero ritornare «a colpi regressivi di moviola / a chiudersi nel seme» (salvo poi scoprirsi incapace di invertire la marcia alla propria «morte a dismisura»). In mano il fuoco è un componimento che, nella distinzione proposta da Raboni tra un registro «descrittivo e narrativo» e uno «astratto-speculativo» che caratterizzerebbero pendolarmente l’intera opera di Cattafi, andrebbe annoverato tra i testi in cui agisce questa seconda modalità: il fuoco, da scrittura che s’imprime «su cose sconosciute» (eco delle montaliane «lettere di fuoco»?), scappa di mano, sembra voler acquisire una forma capace di consegnare un significato allegorico che poi invece non si coagula, resta allusivo e frammentario, risonante di vaghi echi biblici. Echi che diventano eliotiani in Come un capello, in cui una Waste Land («questa brulla terra di nessuno») è turbata da un’epifania minima, introdotta dalla similitudine monca – perché non conchiusa da un secondo termine – suggerita dal titolo. Proprio da quest’ultimo testo si sarebbe tentati di estrarre una sorta di cifra dell’intera poesia cattafiana: quell’ossimorico, paradossale «indelebile nonnulla» – che per sineddoche potrà essere anche l’uomo – di cui Cattafi tentò strenuamente di desumere il senso attraverso una poesia radicalmente intesa, con parole sue, come «tentata decifrazione del mondo».