IL MITO GRECO DI ERALDO GARELLO
Eraldo Garello con Lo sguardo di Orione (Bastogi) completa la trilogia dedicata al mito greco. In Attis e Agdistis aveva affrontato la problematica del rapporto padre-figlio e potere-eversione; in Polemotrofia, ovvero l’arte di nutrire la guerra si era addentrato nei meandri della psicologia della guerra; ne Lo sguardo di Orione, invece, riflette sulla tragicità dell’esistenza e sulla equivocità del destino dell’uomo, creatura fragile che resta chiusa nella sua solitudine dinanzi alle tenebre dell’ignoto. L’occhio critico di Eraldo Garello spazia nei lontani tempi del mito, ne coglie i messaggi nascosti, li filtra tra le maglie di una salda cultura moderna e li proietta sulla scena della contemporaneità. Nel frequentatissimo territorio mitologico, numerose sono le affinità tra i diversi mhythoi e tutti quanti sono legati da un solco dove scorre un unico messaggio: la lotta tra l’uomo e la divinità. Eroici personaggi che racchiudono nella loro essenza qualità divine e umane, e che fungono da intermediari tra il mondo dei mortali e quello degli dèi immortali, prendendo sovente le difese dell’uomo cui è impedito di avvicinarsi ai sacri confini del divino, castigandone il desiderio. È il desiderio, infatti, che origina l’energia che si proietta oltre i limiti della materia che ci avvolge nella sua cecità conoscitiva. Nella remota mitologia mesopotamica, il dio Enlil, infastidito dalla frenetica attività dei mortali, dalle loro scoperte, dalla tensione a migliorarsi, dai loro successi, manda pestilenza, siccità, carestia e, alla fine, il Diluvio Universale. Anche in questo caso c’è un salvatore, il “Grande Saggio”, che dietro consiglio del dio Enki, come il biblico Noè, costruisce l’Arca della Salvezza, nella quale ammassa tutto quanto deve essere salvato e conservato affinché l’umanità non scompaia. Prometeo vìola l’ordine cosmico rubando il fuoco solare per farne dono agli uomini e migliorarne le miserabili condizioni di vita; e per questo viene condannato ad una pena orrenda. Più vicino a noi è il mito di Dioniso. Per gratitudine nei confronti degli uomini, in mezzo ai quali era cresciuto, insegna loro l’arte di produrre il vino, generatore di energia, consolatore delle afflizioni, fonte di letizia, d’entusiasmo, di ispirazione artistica e creativa. E per questa sua volontà di rompere l’ordine stabilito viene considerato alla stregua del Caos, del disordine contrapposto all’ordine apollineo. Da qui la sua vicinanza all’uomo, al cui interno convivono e si scontrano bene e male, pace e guerra, innocenza e delitto. Nell’uomo arde la fiamma della nostalgia per il perduto regno, e questa nostalgia, sotto la forma del rimorso per la colpa commessa, gli corrode senza tregua lo spirito. L’ebbrezza, l’orgia, la danza diventano i mezzi per rimuovere il peso abbrutente dell’angoscia, originata dal sentimento dell’abbandono. Ma lontana è la strada del ritorno attraverso l’espiazione. Lo stesso Cristo, figlio di donna terrena e di Dio, soffre, espia e percorre la via della salvezza insieme a tutta l’umanità, poiché di tutta l’umanità Egli porta il peso del peccato originale che risale ad Adamo, fragile impasto di argilla e di soffio divino. Adamo ha osato cogliere il frutto dell’albero della Verità, e il suo errore graverà su tutta la sua discendenza. Con la morte di Cristo si entra nella modernità, viene tolto alla divinità ogni attributo terrestre e umano; la divinità si posiziona oltre i limiti del conosciuto, come fosse puro suono e pura luce; e a queste due essenze dell’Essere lo spirito dell’uomo, memore della sua origine divina, anela. la stessa tensione che anima Chedalione -l’amico e psicagogo che direziona il cammino del cieco Orione– e che gli fa proferire, dopo un lungo itinerario salvifico che alla fine fa sì che Orione si scrolli di dosso la sua colpevole Hhybris e la sua indegna colpa, consentendogli così di riacquistare il dono della vista: “La fede/ tua nel Sole avrebbe fatto sanguinare/ e lacrimare le pietre, e se ciò/ fosse accaduto non mi sarei stupito/ più di quanto poi non mi sorprenda oggi/ la meraviglia della vista riavuta”. Il poeta-filosofo Eraldo Garello (è difficile dire dove cominci il filosofo e finisca il poeta, a conferma del fatto che la poesia è pensiero, come asseriva Martin Heidegger quando scriveva che: “…ogni pensiero meditante è un poetare, ogni poesia è pensiero. L’uno non è senza l’altro e l’uno e l’altro scaturiscono da quel dire che si è votato al Non-detto, perché è il pensiero come rendimento di grazia”, e questo pensare si verifica su uno spazio di memoria dove il poeta ascolta il tempo, e riferisce), Garello, dicevo, ha voluto raccontarci, attraverso lo specchio del Mito, l’avventura del nostro peregrinare con i nostri errori, i delitti, le guerre, la miseria umana, la sofferenza e il nostro continuo cercare il varco che ci liberi dalla cecità che ci affligge e ci proietti nel territorio del Vero. Orione si è macchiato di una colpa orrenda, e per questo motivo viene privato della vista, così come Edipo. L’uno e l’altro -sia pure inconsapevolmente- hanno avuto un rapporto incestuoso con la propria madre; grave è quindi il delitto e per tale delitto vengono puniti, indipendentemente dalla consapevolezza o meno dell’obbrobrio compiuto. Nei drammi di Orione e di Edipo si identifica la storia dell’umanità, fondata anche sulla tensione del desiderio continuo. Ma il primo gradino dell’umano desiderare è rappresentato dall’Eros, dalla passione di congiungersi con l’altro lungo la proiezione del tempo; e poiché questo avviene attraverso sensi, la materia, il sangue non si perviene mai alla liberazione ma ad una ulteriore situazione di prigionia. La liberazione avviene nel momento in cui la memoria del primo incendio -la divina fiammella- si spoglia del corpo e si proietta nell’Assoluto. Sia Orione che Edipo, espiate le proprie colpe, liberatisi della cecità degli occhi e della mente, attraverso il duro itinerario dell’eterno ritorno, del cammino verso la sorgente della luce, assurgono al cielo: il primo trasformato in Costellazione, il secondo rapito dagli dei. È il sogno dell’uomo, la sua grande aspirazione, ma una colpa remota e sconosciuta lo piega nel chiuso mondo delle ombre, e gli fa dire, con le parole di Emily Dickinson: “Da Dio chiediamo una grazia,/ di poter avere perdono/ per quello che si presume egli sappia./ Il delitto, dalla nostra parte, è nascosto”. L’Orione di Garello trova la luce ma subito la perde; la felicità per lui è tanto fulgida quanto fugace, è un raggio di sole che perfora la notte e subito svanisce. Gli rimangono la speranza e il dolore come unico conforto per continuare il cammino, gli rimane “il senso devastante della colpa, d’ogni colpa/ la condanna pronunciata prima ancora/ che il crimine sia commesso, l’abbandono/ cieco al ventre sterile della fatalità”. A trasmettere a noi lettori il dramma, lo sgomento della condizione umana, l’angoscia per la perduta regione della luce seguita dalla gioia della ritrovata luminosità, non è tanto il il pensiero del filosofo quanto l’incantamento del poeta, il suo intimo vibrare di fronte al dolore e alla gioia, la parola poetica che scaturisce dalla dinamica dei contrari e ci offre, superando lo stesso pensiero filosofico, la felicità della creazione. E vorrei concludere con l’epigramma di Friedrich Hölderlin: “Molti tentarono invano di dire la gioia più grande con gioia;/ qui finalmente mi parla, qui nel dolore si esprime”.