LA POESIA DI RODOLFO VETTORELLO
Apre la raccolta L’intesa è un tessuto che smaglia di Rodolfo Vettorello (Golden Press) una citazione da Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald: “Il mio garbo -diceva Dick Diver- è soltanto un trucco del cuore”. Discorrendo un giorno con Hemingway, che per lui provava ben più di una punta di comprensibilissima invidia, Francis Scott Fitzgerald ebbe a dire: “Tutto ciò che ho fatto è stato scrivere di me, sempre e soltanto di me. Del resto, amico mio, credo che possa bastare”. Snob, istrionico animatore di cocktail e balli senza fine, febbrile bevitore di vita e di gin, costantemente ossessionato -e così condannato- dall’amore per la moglie Zelda, affascinante quanto schizofrenica, dotato di un incanto che si accresceva spendendosi, Fitzgerald vive, oggi come ieri, in ogni suo personaggio: è nel sorriso ingannevole di Dick Diver, è nella follia di Padre Schwartz (Assoluzione), è, potentemente è, il grande Gatsby, sempre incompiutamente teso a raggiungere la voce perduta di là dalla stanza. Fitzgerald vive nelle incrinature delle sue pagine che si nutrono, divenendone memorabile testimonianza, delle dorature, delle fatuità e delle ebbrezze luccicanti della “Età del Jazz”. Fitzgerald è -e per questo supremizza e si consegna alla storia- il suo tempo e la sua opera perché, con il suo tempo e la sua opera, ha raggiunto pienezza di intesa. La stessa “intesa” (il salto è notevole ma giustificatissimo), tessutale e smagliante, infinitamente, quasi carnalmente, intima conseguita ora da Rodolfo Vettorello con questa sua ultima, cesellatissima, raccolta. E basta leggere una sola poesia, fra le sessanta proposte, tutte compiutissime e per dosazione metrica e per uso aggettivale e verbale, per visualizzare l’Autore. È Rodolfo Vettorello, così naturalmente pervaso di gentile eleganza, che ci accompagna misuratamente– questo il suo stile e la sua pronunciatura espressiva- all’incontro con Cecilia (Il pagliaccio e la bambina, struggente lirica d’apertura) debole, fragile e lieve/ come un fiocco di neve, il cui piccolo cuore aspettava / un trapianto. È Rodolfo Vettorello, con quei suoi modi garbati -forse soltanto un trucco del cuore per dirci del male senza gridare?- che ci tratteggia un “oggi” dolente, abitato da gente di colore che si spande / per strade tristi di città bastarde; dove essere vecchi è certo una condanna; dove si muore a tre anni sulla rena bianca (Ad Aylan, soltanto tre anni, pungentemente accusatoria); dove l’uomo è feccia, carne impregnata di cattivo odore, rifiuto e scarto umano. È sempre lui, questo Poeta dagli infiniti riconoscimenti di prestigio ed amatissimo per la chiara nobiltà d’animo, che vediamo camminare per strade di città della sua Milano, fra omaggi quasimodiani e gente febbrile che ti scansa e corre; che immaginiamo perduto, gli occhi chiari leggermente socchiusi, nell’incanto di Matera sospesa / sopra la gravina con la sua aria che profuma da stordire; ed è ancora lui che ricorda -e ricordando ama- con rarefatta dolcezza di tono la madre perduta, Gildo, l’amico perfetto e mito dell’infanzia, Narcisa che tornerà, speriamo / come rondine al cielo di Milano. Il tutto espresso per il tramite di quella parola fine -paradigmatica cifra vettorelliana- che non si fa mai grido, a disperdersi subitaneamente, ma richiede vicinanza per essere compresa e che, in quanto tale, incide e tatua imperituramente. Una parola -un dire poetico- che dei poeti veneti possiede l’affettuosa cordialità, la mistica della filtrazione scritturale, la mestizia serena, la nostalgia senza rancori, la suggestione attiva. Dei lombardi, il tono sommesso dei timbri miti e verecondi capaci di verticalità improvvise, raggelanti ed abbaglianti come la bellezza suprema delle notti artiche. E scende, come nevicata lieve ed abbracciante, come pioggia di primavera fine e cadenziata, l’endecasillabo di impareggiabile raffinatezza di Vettorello, tutto sfumando in una musica di suggestiva suadenza. Un suono, in cui mai si avverte la costruzione attenta, liquidamente permeante, sgorgante da un gioco abilissimo di endecasillabi sciolti alternati qua e là da settenari o da misure ipometriche; da un impiego ripetuto di enjambements quale equivalente armonico della rima, quasi inoperante se non in chiuse di rapente perfezione. Notevole, poi, l’arte ad intarsio dei rimandi, le riprese semantiche a rincorrersi in contrazioni stupenti per immagini ed atmosfere. Rodolfo Vettorello possiede oramai quell’adultismo in poesia (Coletti) proprio dei poeti massimi: il raggiungimento sublime dell’identificazione adesivamente fusionale autore/opera. Con garbatezza -mi ripeto, forse soltanto un trucco del cuore per dirci del male senza gridare?- Rodolfo Vettorello ci dona, dunque, una raccolta destinata a rimanere, tanto è parte di un quotidiano trapassante e condividente, e trattenente alcuni dei versi più belli della poesia dei nostri giorni. Perché, per lui che scrive e per noi che leggiamo, quel che massimamente conta -il prius- è la parola: La sola parola che occorre e che salvi / troviamola insieme.
Prefazione