LA POESIA RACCONTO DI GIOVANNI GIUDICI
Dagli anni Sessanta in poi, la nutrita serie delle raccolte di Giovanni Giudici, ben dodici, è venuta a consolidare l’originala esperienza di uno scrittore che ha superato nelle sue prove la crisi del linguaggio poetico di una generazione e di una età. Coetaneo di Pasolini, di Roversi, di Zanzotto, Giudici ha scelto la strada di una poesia come racconto critico di sé, secondo un taglio ironico (che è soprattutto autoironico), della pura intonazione. Un racconto della identificazione progressiva, che è poi dell’approssimazione per difetto, disteso in una specie di “canzoniere” moderno e affidato al recupero di usi lessicali e sintattici diversi, assunti al livello di letterarietà. C’è, dentro la poesia di Giovanni Giudici, un movimento per il quale l’io-poeta da protagonista si è progressivamente decentrato, individuandosi sempre più come uno degli oggetti della poesia. Ed è da questo punto di vista che, ad onore del vero, quelle che erano sembrate ad alcuni critici tracce di neocrepuscolarismo si rivelano invece segni del costante processo di autoridimensionamento a cui l’autore ha sottoposto il suo lavoro poetico. L’io-poeta è controbilanciato sempre più, nel prosieguo della vicenda di Giudici, da altri io-estranei, interlocutori rivalutati a ruolo di coprotagonisti. E, di questo andare ironicamente contro se stesso, ci sono spie stilistiche e spie grammaticali. Innanzi tutto, colpisce in Giudici la contrapposizione al tono alto, elevato, del grigio della materia. Il linguaggio mediano della quotidianità viene recuperato ad un’area linguistica preferenziale che è al grado alto sintattico. Il fenomeno era già macroscopico nelle prove del passato, poi si è gradualmente affinato in una trama sempre più sottile, in cui risalta di riflesso il gioco delle figure retoriche: l’inversione, l’anastrofe, l’iterazione. La predisposizione drammatica di Giudici cede a tratti, come nella partitura di un recitativo, all’inno. Ma un inno del tutto particolare: quello, appunto, che deve assicurare un’intonazione solenne alla materia trita e quotidiana e quello che, come possibile o presunta regina delle convenzioni metriche, garantisce dell’ordine nel disordine. Il fenomeno si è evidenziato in O Beatrice, e si è sempre più raffinato, attraverso Salutz e Lume dei tuoi misteri, fino a Fortezza e nell’intera sua produzione, Tutte le poesie (Mondadori). Di che cosa parla la poesia di Giovanni Giudici? Parla, nel suo svolgimento, dell’inurbamento, della società neocapitalistica, del lavoro nella grande industria, della vita d’ufficio, delle convenzioni familiari, della massificazione, del consumismo. È un racconto della vita quotidiana in cui più stridente, nella riduzione alle misure minime, si fa l’accenno alle aspirazioni e agli ideali. Un racconto non in chiave oggettiva, realistica, o tanto meno memoriale, di confessione e di rimpianto, ma secondo deformazione e sfocamento: lo spaesamento dell’io nel delirio quotidiano, nelle allucinazioni della casa e della famiglia, in mezzo ai fantasmi dei media di massa, nell’alienazione del lavoro. E, oltre a tutto questo, uno spaesamento dell’io che proietta a se stesso l’immagine delle strutture labirintiche del suo cervello. Bisogna parlare anche di onirismo o, meglio, di interferenze oniriche a proposito della poesia di Giovanni Giudici. Ed è un’indicazione che va sottolineata alla luce di certi sviluppi della fase ultima, per quel modo di guardare alla realtà (e al mondo) dal suo rovescio. Come appare, esemplarmente, in molte delle poesie del “diario in versi” di Fortezza o di Quanto spera di campare Giovanni o di Eresia della Sera.