LA FOLLA SOLITARIA DI CARMELO CONSOLI

LA FOLLA SOLITARIA DI CARMELO CONSOLI

Una Terra Desolata di dimensioni certo meno epocali balena frequentemente nei versi sconsolanti ma classicamente proposti e torniti da Carmelo Consoli: La solitudine dei metrò (Biblioteca dei Leoni). La solitudine della vita in città che un tempo costituivano un ideale di convivenza civile e umana è il tema fondamentale di questa raccolta ricomposta e definita come un ideale poemetto in cui esperienza personale e sentimentale e vocazione della scrittura si riuniscono in un tentativo riuscito di loro sintesi. Consoli soffre della sua visione della “folla solitaria” di cui pure è costretto a fare parte e in cui si immerge sia pure a fatica, con un intimo moto di ripulsa. La cifra che ne risulta è un’angoscia diffusa, una forma assoluta di ripiegamento su se stesso che solo nella scrittura poetica potrà trovare qualche forma di risarcimento adeguato. Scrive a questo proposito anche Paolo Ruffilli nella sua Prefazione al volumetto: «Dominante, in questa poesia che si può definire “civile”, è la componente angosciosa: quella, appunto, che deriva da una lucida analisi della realtà, dalla conoscenza e dalla consapevolezza del suo degrado, di una progressiva alienazione che si è impadronita dell’uomo. E c’è tuttavia l’innescarsi, in questo quadro negativo, di una speranza, di una possibilità di salvezza, legata all’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione. Al centro di questo libro si pone la mitologia del quotidiano, colta nel suo paesaggio privilegiato, quello urbano, con i suoi esterni ed interni, case, strade, dove mostruoso rilievo acquistano i resti di quella civiltà meccanica che, accompagnandoci ormai costantemente senza mollarci attraverso computer e cellulari, mentre ci offre nuove e più larghe opportunità, ci assedia e ci svuota di ogni personalità, condannandoci alla solitudine e all’insoddisfazione». E aggiunge poi, in conclusione del suo testo introduttivo, notando come proprio la scrittura lirica costituisca una sorta di via d’uscita o, meglio, come oggi si suole definire con un’espressione più icastica, una exit strategy che:«Del resto, rispetto al quadro di un grigiore soffocante, si aprono inaspettati scorci anche dentro il labirinto metropolitano e Altre fragranze ritornano / come quando la vita era sogno, si disegnano improvvise pause di luce perfino nelle periferie più cupe e polverose e le persone, dietro ai ricordi o attraverso gli incontri, riescono a ribaltare, in qualsiasi momento e contro ogni apparenza, la situazione con la forza rigeneratrice della loro umanità. L’atmosfera della poesia di La solitudine dei metrò è quella delle superfici ben disegnate in cui campeggia una realtà contratta, come vetrificata, sbilanciata tra concreto e astratto, cioè tra riferimento oggettivo e immaginario quotidiano. E, quella dell’immaginario quotidiano, è la componente costante, con la sua nettezza allucinata, che è poi la cifra originale dell’intero libro. In un linguaggio contenuto ma graffiante, di una incisività direttamente proporzionale all’energia vitale e polemica che lo anima dal più profondo». Le citazioni dal testo di Ruffilli permettono ora di gettare uno sguardo più disincantato sul modo stesso di comporre poesia da parte di Carmelo Consoli che si riserva e si ritaglia sempre un ruolo distaccato nell’ambito della scrittura che va a comporre, tassello dopo tassello, la ricostruzione della città e della sua solitudine in un ambito di lirismo controllato e vigile, senza tentazioni eccessive di patetismo o di un facile sensazionalismo nelle immagini poetiche utilizzate. Carmelo Consoli sa misurare le parole e le adegua agli oggetti di cui intende rappresentare sia l’anima che le potenzialità liriche. E’ il caso proprio della poesia che dà il titolo alla raccolta: «La solitudine dei metrò. Sei nella solitudine dei metrò / quando invece pensavi di abitare / nel grembo caldo della terra, / nel covo degli amori, / tra la passione degli sguardi. / Vai col passo contrario delle scale mobili / nell’intreccio di linee, direzioni. / Scopri di essere solo transito fugace, / esile profilo di danze, smarrimenti / tra anonime folle nei meandri / di labirinti suburbani. / Ti immergi nei metrò, / nelle vene scure dei binari, / per perderti tra i lampi delle carrozze, / nel bianco neon delle portiere / che aprono, chiudono, svaniscono / nel fondo buio delle gallerie. // E cerchi un sorriso, una carezza / che ti sfiori, ti perdi / dipanando il filo arrotolato del cuore / nel groviglio delle linee elettriche, / nel grido di ruggine dei treni. / Sei nella solitudine dei metrò, / nei volti che emergono / dal cilindrico cuore della terra / o sfumano nei cunicoli dei tunnel / ingoiati dal nero delle stazioni, / chiusi nell’azzurro dei sogni / che si portano dietro». La solitudine dei metrò è un’allegoria compiuta della vita dove si nasce e si muore da soli e dove si è costretti a vivere a contatto e in un rapporto di amore-odio, di incontro-scontro, di contiguità conflittuale con tutti gli altri assegnatici in destino come compagni di corsa a termine. Nasconde al suo interno la consapevolezza della fugacità e della transitorietà dei rapporti, della impossibilità di una linea che sancisca la continuità tra gli amori e gli scambi, tra la densità dei sentimenti e i sogni ardenti della giovinezza. E’ un’elegia per la fine delle illusioni dove la possibilità di sopravvivere è l’unico scampo rimasto all’inabissamento nel cuore nero della terra anonima e infeconda. Vivere la solitudine significa – per Consoli – accettarne il peso e la dura disciplina dell’adeguamento a una legge che non ha più nulla di umano e schiaccia la soggettività personale con il tallone di ferro della necessità implacabile dell’oblio e della sfuggente onda del mare di un’oggettività che tutto assorbe in se stessa e tutto consacra al suo culto onnicomprensivo e feroce. Di questo Carmelo Consoli è ben consapevole ma spera ancora in un possibile, futuro orizzonte di umana gloria, di possibilità di fuga, di capacità di trovare scampo in luoghi non ancora travolti dalla furia spietata del grigiore che tutto avoca a sé, della polverosa cadenza degli eventi sempre mescolata alla sofferenza che accompagna la continuazione infinita dei giorni dell’affanno e del dolore insidiati dall’assillo della fine. Ma uno squarcio di cielo azzurro alla fine si può ritrovare nella coscienza traslucida dei propri sentimenti chiamati a raccolta per provare a rompere, sia pure parzialmente, l’assedio posto dal bisogno di accettare un destino troppo spesso considerato ineludibile: «Il cielo in tasca. Ho strade anonime da percorrere, / metropolitane, scale mobili, periferie, / palazzi dove vivere e morire significa / occupare o lasciare spazi utili, / dove nessuno ti bussa alla porta / per farti felice e tutti ballano valzer solitari / di sogni impossibili. / Ma stasera ho il cielo in tasca, / sulla faccia tramonti a ricami oro arancio / e questa città poi che s’incendia all’improvviso / sui muri, negli occhi grigi e marroni della gente. // Ho il cielo in tasca / inseguo sentieri polverosi, / viottoli stretti di menta, gerani / e poi i silenzi solari delle piane / verde oro, l’odore buono delle madie, / praterie di lucciole e papaveri. / Ma devo stare al gioco dei semafori, / in coda agli sportelli, esibire codici fiscali / e riempirmi il cuore di guerre, urbane disperazioni / mentre mi urlano di farmi da parte / e che la vita si consuma dall’oggi al domani. // Solo che stasera mi sfarinano negli occhi / arcobaleni e comete e ho il cielo in tasca, / nella giubba lune rosse, grilli campagnoli. / Poco mi importa se tutti danzano da soli / dentro scatole quadrate e macchine di latta. / Io evado da condomini e posti macchina, / ritrovo muretti nero lava, capperi e limoni, / solitudini azzurre e infinite / in cui smarrirmi ». Così, giorno dopo giorno, confitto ardentemente nel ricordo di un passato ormai inattingibile e lontano, Carmelo Consoli cerca di resistere alla morsa del silenzio e dell’oblio, della solitudine metropolitana e della sua alienazione perpetua, utilizzando le armi che gli sono proprie in questa battaglia e che soltanto può utilizzare vittoriosamente: quelle della poesia.

Giuseppe Panella

Literary.it

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