IL MONDO IN PERDITA DI CARLO NARDESE
L’incipt d’esergo, dell’ultimo libro libro di poesia di Carlo Nardese, Notazioni di un commesso viaggiatore (Edizioni del Leone), porta la firma di Pasolini, ove questi ricalca che “Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’essere amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più”. L’autore presenta al suo attivo quattro precedenti raccolte di versi: La vita futura (1986), L’infinito prossimo (1987), Nel triste paese del rimorso (1989), Passaggi obbligati (1991), ed un romanzo epistolare Lettere a un pipistrello (1999). E, a proposito di quest’ultimo Notazioni di un commesso viaggiatore, del quale diamo ragione, Paolo Ruffilli sottolinea che Carlo Nardese, “ha scritto il libro della sua maturità umana ed espressiva, uno dei testi più luminosi e stimolanti che mi sia capitato di leggere ultimamente”. Si tratta di trentacinque selezionatissime liriche che iniziano con il titolo di “Parole”, definite, nei tre versi conclusivi, come “sogno più vero del reale / sorgente viva nella morte della vita” (p. 9). La sua dimensione morale, in queste pagine, sembra rasentare l’irrequietezza del ricercatore che, in se stesso, non riesce a superare il fatale dilemma che, nel percorso filosofico, si può semplicemente definire nel ben noto rapporto di conoscenza col mondo, caricato in sintesi sul discorso dell’ Io non io e nelle relative conseguenze che ogni essere umano pensante pone, a volte, a se stesso, senza peraltro risolverlo. E non ricade nella malinconia lamentosa dell’insuccesso nemmeno il quadro d’orientamento, in qualche pagina successiva, ove Nardese dice senza peraltro cedere ad un’indagine approfondita del fenomeno, “Io che non sono / la mia vita / lascio che il tempo / scompaia e ricada / dietro risate / di carta opaca. / Non ho la pazienza / di un fiore incartato / neanche la dote del distacco / ogni minimo sguardo / rubato o dato / mi scuote il cuore… / di te / conosco solo / il nome .” (Io, p. 11) . Il Commesso viaggiatore del titolo non è altri, allora, che l’uomo vagabondo, esiliato ed escluso per sempre dalla visione del paradiso perduto al quale nemmeno più tende, nell’accettazione di una realtà incomprensibile quanto astrusa e di una esistenza non richiesta da vivere. In tale determinismo, la poesia, come ispirazione e dettato interiore, assume i colori dell’ultima sponda possibile, ove le illusioni siano svanite nel nulla di fatto e le speranze siano crollate come la cartapesta degli scenari teatrali. Carlo Nardese canta un presente al quale egli stesso non riesce ad offrire possibilità alcuna di apertura e di sviluppo, tuttavia non negativo e in perdita, ma semplicemente colpito da un’aridità che non si abbevera ormai più alle sorgenti suggestive dell’Anima” che non cresce più…” per il semplice motivo che “dà angoscia il vivere di un consumato amore…” e sosta in una terra che gli appare straniera, non rischiarata da nessuna luce, da nessuna proiezione di futuro. E questo ritmo dolente in cui la disperazione si stempera in monotonia, ritorna: “Vivo una casa non finita / e trascino detriti quotidiani / che ironici operai innocenti / continuano abilmente a rendere evidenti // Corpo / mescolanza errata di cenere e sangue / donami ancora / la splendida giravolta / del capogiro…” ove, è chiaro, la Poesia rimane l’ultima sponda, l’ultima possibilità di sopravvivenza.