LE SATIRE DI MARCO IGNAZIO DE SANTIS
L’ultimo libro di Marco Ignazio de Santis, Ritorno di fiamma, con sottotitolo: poesie umoristiche e satiriche (Genesi Editrice), si fa leggere invogliati da un titolo che intriga e da una immagine di copertina, con l’opera “L’agitatore” di George Grosz, che mette subito in moto la fantasia grazie a un disordine di strumenti musicali agitati dall’uomo al centro della scena, circondato da attenti, stupiti, forse felici ascoltatori, in una sarabanda di suoni, rumori, melodie. E tutto è frastuono e tutto è visionaria realtà che segna passi in fuga, seni statici, messi in mostra a bella posta per tentazioni visive e uditive, miste a un peccato di gola e della mente in debito con un piatto fumante e un buon bicchiere di vino, mentre su tutto l’ironia regna sovrana in un tentativo di ordine in tanto disordine di realtà di colori e di stupori. Il titolo è, a mio parere, la logica conseguenza di una serie di passaggi strategici a cui il poeta si è affidato nel tempo per rinascere continuamente attraverso l’ “eterno ritorno” all’amata poesia, sua musa e ancoraggio, avendo acquisito l’amara consapevolezza di sentirsi via via sempre più sconvolto, più che coinvolto, da un mondo, quello contemporaneo, in cui il vuoto di senso e l’aumento esponenziale della violenza, anche per futili motivi, lasciano un po’ tutti noi, ancora in possesso di umana pietas, privi di risorse fisiche e soprattutto interiori per reagire e ribellarci. Marco Ignazio de Santis ha spesso soffocato persino il suo desiderio/bisogno di scrivere versi, in tempi in cui persino la speranza, che pure è l’ultima dea a soccorrere i poveri mortali, gli veniva meno. Umberto Galimberti, nel suo straordinario saggio di alcuni anni fa, L’ospite inquietante, parla di nichilismo nella società contemporanea, rifacendosi al pensiero di Nietzsche, che già ai suoi tempi aveva paventato e preconizzato tale condizione disumana per l’intera umanità. La situazione, a livello mondiale, non è cambiata molto anzi, a mio parere, è peggiorata ma, se alcuni anni fa Marco Ignazio de Santis aveva affidato alla poesia la missione di un possibile cambiamento di rotta, confidando, come ultima risorsa, nel gruppo degli amici poeti, coraggiosi “argonauti” del nostro tempo alla ricerca del vello d’oro (Lettere dagli argonauti, La Vallisa), più tardi ha avvertito il bisogno di esaltarne il senso sacro e salvifico, riscoprendola nel suo «santuario», dove trovano asilo «sparute […] sacche di resistenza», dopo aver registrato, ancora una volta, con profondo dolore, la «giovinezza» espropriata a «mille e mille ragazzi» dall’«avidità di plutocrati e finanzieri», che s’inginocchia «alla dea Mammona / e affama e uccide le moltitudini misere della terra» (Dal santuario, Edizioni Helicon). E, ancora una volta, sono gli amici poeti, anche quelli persi nei cieli di ogni addio e senza un arrivederci, a dargli la forza, il coraggio, la speranza di poter rinascere. Delicati e veri i versi dedicati a Primo Leone, ad Assunta Finiguerra e a Moma Dimić in “Vespero”, nell’«ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio», per dirla con Dante. L’amicizia, per Marco de Santis, è consolatoria e sacra proprio come la poesia. Non potrebbe, non saprebbe farne a meno. Ma è inevitabile avere ritorni di sgomento in questo nostro «torbido Occidente», dove «un’egoistica pazzia travolge le menti» (“Sul fior di loto”). Uno smarrimento dolente, anche se calmo («assurdamente quieto»), quasi d’impotenza, assale il poeta di fronte al «Moloch che divora / i libri stampati alla macchia / e ci condanna a non esistere» (“Nel ghetto”). E, così, ancor di più avverte il bisogno dell’oblio e della dimenticanza. E il «novembre» è metafora e sineddoche di una stagione triste e perdurante, che volge all’inverno, deserto freddo e inospitale del cuore, dove si annidano, come una personale sconfitta, gli ultimi che «non / saranno mai i primi, / ma soltanto gli ultimi, / i perdenti» (“Gli ultimi”), a riempire «d’amaro» la bocca, che sembra rimanga dischiusa sul baratro di un verso che ha dopo di sé tutto lo spazio della infinita violenza del mondo contemporaneo e di sempre. Di qui l’invocazione alla dimenticanza. Ma de Santis è «uomo metafisico / che non demorde». E le rotte inusitate, le strategie di difesa e le nuove risorse eccole vibrare di amara quanto liberatoria risata in Ritorno di fiamma, che è sì un ritorno alla poesia, ma anche a un certo genere scherzoso e ilare che sempre Marco Ignazio de Santis ha coltivato e in parte pubblicato su “La Vallisa”, in diversi numeri, e su altri libri e riviste culturali, che sarebbe molto lungo elencare. Non a caso, nella Premessa, l’autore afferma: «Il riso è una straordinaria forma di resistenza, difesa e contrattacco nei confronti delle insidie e dei dolori della vita, come pure nei riguardi della malvagità e stupidità umana. Il valore liberatorio, catartico, protettivo e a volte terapeutico del riso costituisce la prima ragione che mi ha condotto alla ripubblicazione dei versi umoristici e satirici apparsi in anni diversi in riviste e pubblicazioni varie». E, questa volta, la misura deve essere stata davvero colma, se Marco ha scelto finalmente di mettere insieme (quasi) tutti gli spunti del suo “riso” nel tempo, per riproporceli in funzione di una franca, bella e sonora risata corale. Il genere umoristico-satirico affonda, come sappiamo, le sue radici nella cultura greca (con argomenti di stretta attualità legati alla polis e vivacizzati da una polemica forte e coraggiosa), ma ancor di più in quella latina con Ennio, Lucilio, Plauto, Ovidio e soprattutto Orazio, nelle cui satire troviamo ironia di contenuto e spigliatezza formale, in una sorta di compromesso tra “il serio e il faceto”, come ben ha appreso il nostro autore. Ma ci sono anche molti poeti e scrittori che, nell’arco dei secoli fino ai nostri anni, si sono dilettati a scrivere poesia o prosa giocosa e satirica anche in vari dialetti o in lingua, con l’intento soprattutto di colpire potenti e governanti con sane frecciate al veleno lanciate magistralmente al loro indirizzo (Angiolieri, Tassoni, Parini, Belli, Trilussa, Gadda, Pasolini, Govi, Fo e tanti altri ancora). La satira o l’umorismo, del resto, sempre veicola pillole di verità in confezioni di divertenti straniamenti dalla realtà che descrive; circoscrive e cesella, in brevissimi versi, supponenti velleità da ridicolizzare; smaschera, mettendo in burla d’Annunzio, perduranti ipocrisie o incongruenti valori strombazzati per verità. In realtà, nelle sei sezioni, di cui è composta la pregevole e divertente raccolta, ci sono componimenti brevi, che vanno dalla favola contemporanea (sestina perlopiù di settenari e un distico conclusivo, con morale incorporata, per dare ritmo cadenzato ed eleganza a tutta la composizione) ai ritrattini malthusiani (quartine con rima baciata centrale e una sonorità di particolare efficacia, che non cede ad alcun lirismo perché realistica è la pennellata caricaturale che colpisce questo o quel personaggio di chiara fama intellettuale…), ai limerick (di origine inglese, fondati sul nonsense e su una struttura più o meno rigida di cinque versi in rima baciata con conclusione… sconclusionata). Ma, mentre nella prima sezione tutte le poesie ripropongono in tono scherzoso le opere di grandi autori italiani e stranieri per ammiccare con giochi di parole a realtà altre o per ricavarne una simpatica morale, nella terza sezione l’autore, con i suoi “Intellettuali d’Italia. Ritrattini malthusiani”, si fa eco di alcuni personaggi famosi del nostro panorama culturale, colpendone vizi e virtù sulla scia di una identica ironia. E «quella cosa» deve essere stata davvero indigesta per il giornalista in questione, come pure per Asor Rosa, Ceronetti, De Crescenzo, Costanzo… Ma anche tutti gli altri non ne vengono fuori con migliore “fama”. Le ultime due sezioni, minimaliste ma non troppo, definite da Marco “Fanfaluche” e “Morale della favola”, sono in realtà ricche di un retrogusto sarcastico e amaro, da cui è forse impossibile liberarsi. Ed è questo oggi per Marco “Il vero problema”, vale a dire l’imperversare delle più potenti lobbies. Personalmente, ritengo che, ancora una volta, il mio amico ritroverà il bandolo perduto della matassa dei sogni immarcescibili e dei valori inattaccabili dal Male, anche se ci sembra il contrario, perché nell’essere umano convivono da sempre queste due forze misteriose, crudeli e ineffabili, capaci di frantumare verità e di innalzare piramidi di bellezza, inni d’amore al Creato. Marco Ignazio de Santis riscoprirà, ne sono certa, quel volo di rara Poesia, che gli vibra nell’anima, per sollevarsi alto sulle miserie umane, oltre «quest’atomo opaco del Male» rievocato da Pascoli in “X agosto”.