‘ROSA DEI TEMPI’ DI MICHELE BRANCALE
Nel secondo Novecento i maggiori poeti italiani sono stati in gran parte toscani, con una singolare radice a Firenze: Luzi, Betocchi, Bigongiari, Ranchetti, Caproni. Ma anche nella prima soglia di questo nuovo secolo, le terre d’Arno si sono dimostrate assai elargitorie allevando una genìa di voci significative nello scenario italiano, pur nello spettro variegato delle loro biografie e dei loro esiti artistici: da Roberto Carifi a Sauro Albisani, da Alba Donati a Claudio Damiani, da Rosalba de Filippis a Paolo Iacuzzi, fino alla voce peculiare, per grammatura del verso e visione del libro, di Michele Brancale. La tessitura delle sue due ultime opere in poesia, Salmi metropolitani (Edizioni del leone,
2009) e Rosa dei tempi (Passigli, 2014), inframezzate da quel particolare che è il suo poemetto a quadri dedicato a Giovanni Paolo II, La perla di Lolek (Ladolfi, 2011), lo rende distintamente un poeta chiaro nella letteratura contemporanea del paese. Sotto due piani la sua scrittura si fa nutrice di un’interessante riflessione che qui è decoroso solo abbozzare tale è la complessità dell’argomento: la fede cristiana, quando permea la poesia, è indisgiungibile dalla lode. Dai rimari di Jacopone da Todi al Cantico di Francesco alla Commedia di Dante e giù giù lungo il crinale della letteratura europea fino agli ultimi sbocci, Eliot, Milosz, Turoldo, Testori, non si è mai data una parola poetica che non fosse anche impaziente lode dell’esistente affinché esista, produca e rinnovi il prodigio di sé. E’ su questo stesso crinale, mai disilluso, mai disincantato, e se il dolore c’è è finestra aperta alla speranza, che si muove la produzione di Michele Brancale, dalla sua prima fioritura alla presente che qui testimoniamo, Rosa dei tempi: “la gratitudine arresa” (p.11), “il respiro [che] porterà a compimento / la doglia del creato, respiro dato” (p.140), è voce insopprimibilmente cristiana, che si fa ad ogni capoverso lodante risposta e rilettura degli accadimenti, dei luoghi e dei tempi che il poeta vive ed incontra. Chi può dirsi grato, e in più arreso a tale grazia, di fronte alla morte di un caro parente se non chi pensa, appunto, come il cristiano Brancale, che anche il fatto più atroce e violento ha in sé un posizionamento silenzioso ma sicuro nel respiro che “porterà a compimento la doglia del creato”? Se la doglia del creato, pur dolorosa, pur soffocante, ha dentro di sé il risvolto della sua salvazione, che cosa può dire il poeta se non che “tue sono le lodi, la gloria e l’onore o ogni benedizione” (il Cantico di Francesco), se non appunto affidarsi ad una “gratitudine”, morsa dai dubbi ma mai vinta da essi, tale da essere “arresa”? E’ in questo slancio di lode e di resa che Michele Brancale combustiona la letteratura cristiana a lui anteriore e la ripresenta all’attenzione di un Paese che da tempo ha secolarizzato l’annuncio di Gesù e trasformato, nei ciottoli delle esistenze e nei gorghi della politica, la gratitudine arresa in gratitudine spesso conveniente, di clientela o di facciata.