‘REPARTO ANIME’ DI ALBERTO DI RACO
Di fronte a un testo come Reparto Anime (Edizioni del Leone) di Alberto Di Raco, la cui storia poetica ha una sua avara ma indubitabilmente forte densità di risultati, ci si può anche domandare se non si stia assistendo a un rigurgito di quella letteratura “industriale” che fra i tardi Cinquanta e i primi Sessanta fece tendenza e provocò un dibattito probabilmente più clamoroso di quanto il valore dell’oggetto in realtà non meritasse. Domanda legittima in termini volgarmente tematici; assolutamente implausibile, nella fattispecie, in termini di intenzioni, di visione, insomma di linguaggio. E per molte ragioni. Di Raco non appartiene anagraficamente a quella generazione di intellettuali che scoprì la realtà di fabbrica come un enigma da comprendere e un dèmone da esorcizzare, con tutti gli entusiasmi socialprogressisti, le crisi e i sensi di colpa del caso. La sua è la generazione che alla fascinazione del macrofeticcio Industria ha visto succedere il duro panorama del massacro delle risorse economico-ambientali, degli sprechi irresponsabili, dell’inefficienza endemica, della corruzione elevata a sistema. E, oltre alle lotte operaie, la fiammata paranoide degli anni di piombo. Un panorama a dominante grigia e fosca, perciò, delimitato non da orizzonti possibili ma da muri di gomma: un depressive land in cui ciascuno aveva la sensazione di essere la fotocopia di se stesso. Di più: Di Raco affronta i suoi temi con lo specifico linguaggio della poesia, non con i mezzi della narrativa, che nella letteratura “industriale” pagarono alla giovane vogue sociologica prezzi piuttosto pesanti. Con un linguaggio che non lirizza niente, né edulcora le contraddizioni, né sublima i tormenti. L’orrore urbano, l’alienazione della/e metropoli, l’universo a suo modo concentrazionario della fabbrica sono qui, dentro Reparto anime, con tutta la loro pesante oggettività, e gravano ferocemente sulla pagina, ne schiacciano ogni tentazione elegiaca e ogni velleità di elevazione celebrativa. Di Raco abita all’inferno, e lì incontra i suoi mostri. Cosa significa, innanzitutto, questo titolo che evoca inquietanti padiglioni metafisico-carcerari tra Dante e Solgenitsin? Si tratta in realtà di una dizione che, malgrado la sua intensità metaforica, è assolutamente tecnica, come chiarisce in nota lo stesso autore: “Il reparto anime di una fonderia è il luogo dove vengono formati blocchi di “terra da fonderia” (materiali plastici costituiti da mescolanze di sabbia quarzosa, argilla, polvere di carbone, sostanze organiche, ecc.) – denominati appunto anime – al fine di ottenere le sagome delle cavità dei pezzi da fondere”. E’ chiaro che anche questa delucidazione è ingannevole, in quanto immette il lettore nel cuore incandescente della fabbrica per poi fornirgli un’operazione testuale che con la datata letteratura “industriale” non ha più niente a che vedere, proprio per la sua assenza di pretese mimetico-rappresentative e di realismo documentario, e invece in forza della sua furia di attraversamento di una realtà di cui la fabbrica non è il momento di più spinosa diversità ma sic et simpliciter l’iperbole parossistica. Il fatto è che – giustamente – Alberto Di Raco gioca tutte le sue carte su due piani intersecantisi : quello della struttura (poematica) e quello del linguaggio (straniato). Reparto anime si articola così, sfrontatamente e in modo leggibilmente paròdico, in dieci canti : scansione che rifà il verso alla classicità più rassicurante nel momento stesso in cui ne disintegra brutalmente le sicurezze narrative e l’orizzonte di attesa mettendo in campo alcuni elementi centrali della violenza contemporanea, dalla fabbrica appunto, al degrado ambientale, allo smarrimento del soggetto nell’anonimìa della massa metropolitana, al terrorismo, alla perdita d’identità nel cuore di megacittà come Londra, Parigi, New York, il tutto vissuto anche attraverso le vicissitudini del corpo erotico e l’urgenza drammatica della malattia. La storia di un protagonista involontario, dirigente d’industria che vive come in un film decisamente sgradevole i suoi viaggi attraverso le vie, gli uffici e le varie velocità del pianeta, è raccontata in Reparto anime per lunghi flashes il cui lividore abbagliante ferma le immagini non come emblemi privilegiati della voce poetante, ma piuttosto come interruzioni sintomatiche di un flusso ininterrotto di massacro e di morte. E’ un racconto senza stasi, la cui struttura consta – paradossalmente – di un pieno costituito da una catena di crepacci, di vuoti, di assenze, dentro la grande assenza dell’essere. Che non è un Essere per la morte, come vuole Heidegger, in modi religiosi e funerei, ma un essere della materia che dovrebbe trovare il proprio ordine non coatto nella vitalità liberata di un disordine altro, entro la grande vasca di un progetto per tutti, finalmente, finalisticamente. Ecco allora che lo spessore del discorso di Alberto Di Raco si incarna efficacemente nella sua cadenza ritmica e sonora con effetti straordinari di musica cupa e atonale, capace di emergere come un basso continuo dal magma dei correlativi oggettivi che, con energia eliotiana, si intessono continuamente, quasi senza soluzione di continuità, in un paesaggio di macerie, di rifiuti, di memorie spersonalizzate. L’accumulo di elementi rissosamente eterocliti si dispone sul terremotato tavolo dirachiano come un plastico al tempo stesso paralizzato e in continuo smottamento. Di ciò è responsabile la sintassi di questa poesia, che si muove con una libertà retorica fatta di gesti ora stilisticamente sofisticati ora quasi distrattamente trasandati e sconnessi, all’interno di un vortice torvo che ha la forza di unificarne le diverse misure e positure con una risolutezza narrativa di volta in volta drammaticamente scorciata o fortemente dilatata. Due esempi: “Camminava e col vento cadde ogni pensiero, / sentì i propri passi e cominciarono a entrare / dalle sue palpebre rari visi. Una donna / emanava metalli dalle proprie guance, / e le labbra sanguinolente si muovevano / mutamente appena. All’altro angolo si mosse / un cespuglio rossiccio con tratti azzurri / sul volto seminascosto da un giubbotto / nero con collopelliccia ; e un nero appoggiò / il braccio destro lungoinalto lo spigolo / di un bar, esibendo il viso rotondo / dolcissimo su un corpo atletico possente. / Il vento era calato e all’improvviso enormi / vetusti alberi della strada scopriva carichi / di foglie verdissime squillanti sul nero / dei tronchi ieri ancora sembianti morti”. Dove un’icasticità delirante di specie surreale anima di una violenza onirica e spiazzante una realtà pure assai riconoscibile, anche grazie alla disarticolazione apparentemente casual dell’assetto sintattico e – neanche troppo secondariamente – a certe belle arbitrarietà lessicali (lungoinalto), a certe “ingenuità” arcaizzanti (vetusti), a certe metonimie repentine (tronchi ieri ancora / sembianti morti). E ancora: “Solo nel sogno ritenti lo spazio ed il tempo spolti / divenendo breve segno la veglia nel sonno e segno / reale il sogno. L’albume cerebrale è saturo / di stanche materie che coprono continuamente / le cellule irrigidite ormai. Così lacerato / ritorna nei corridoi della memoria sonori / e il linguaggio non esala da terra ma si smorza / ai caldi sensi ermafroditi di un corpo emanati / da forme e colori. Sulla sua bocca posa disteso / calore di vulva e i suoi vortici neri hanno gli occhi / ormai chiusi. I denti canini dopo stragi di secoli / si volsero prima e contrassegni di sesso poi /assunti dallo sviluppo degli organi frontali / cavi e inguainati in un corneo astuccio di pelle”. Dove un’ansia quasi predicatoria lievita in catene di immagini di straordinaria evidenza fisica e materica dentro un’orbita erotica che sa in qualche misura di cosmicità lucreziana, eppure l’ampiezza del dettato non rinuncia a un’unghia della propria lacerata modernità, in quella sorta di inseguimento serpentino (da serpente che si morde la coda) dei dati di un verosimile sottratto senza tregua a se stesso (e ai propri limiti oggettivi) dalla serialità di un processo esplosivo/implosivo che ne mette crudelmente in crisi l’ovvietà morfologica e la consistenza banalizzata. Così, a un mondo insensato, Alberto Di Raco risponde con grande consapevolezza con la destituzione di senso nei confronti della parola-simulacro che il Messaggio Dominante usa come alibi e come mistificazione. E’ una risposta che si pone come produzione di allegoria, con tutto il rischioso carico di cosciente controtendenza che l’operazione oggi comporta. Oggi, dico, che il dazio ufficiale (e stucchevole, ma duro) del Verbo Poetico esige prima di tutto una dichiarazione di lealtà lirica. Di Raco rifiuta questa dichiarazione e esibisce semmai le carte di un possibile Nuovo Impegno: di forte tensione ideologica (non turbi la sputtanatissima parola, nella fattispecie caricata esclusivamente del suo principio di autocoscienza oppositiva e critica) e di altrettanto forte tensione linguistica : una tensione, quest’ultima, tutta regolata su un registro costantemente sconvolto di contraddizione permanente, insanabile sul piano della pacificazione contemplativa, in cui il Soggetto “purifica” il mondo con l’orizzontalità neoplatonica del proprio sguardo. Di Raco, insomma, si espone allegorizzando la propria condizione esistenziale e la propria lingua come reperti di un presente assurdo e al contempo schegge di un futuro realizzabile. Mi pare che non sia poco. E, in tutti i casi, è esattamente quanto credo sia giusto chiedere a un libro di poesia, oggi e qui, nell’immane discarica che abitiamo, con grande disgusto e ancora qualche pallida speranza.
Postfazione