‘VERSI ESICASTI’ DI ENRICO D’ANGELO
Se c’è un poeta che ormai da vari anni, con ferma convinzione (senza i ripensamenti o le retromarce compiute da altri autori “neometrici”) mostra di perseguire nella propria scrittura un classico rigore verbale, questi è Enrico D’Angelo. Ciò lo fa sembrare, a un primo sguardo, un aedo di ordinaria e stretta tradizione; mentre, invece, la sua poesia, letta con più attenzione, rivela una sottesa capacità di mediare l’antico e il moderno, realizzando una sorta di neo-stilnovismo, risultante, appunto, dalla fusione tra un’atmosfera lirica più o meno recente e quella dei tempi andati. Una ulteriore conferma in tal senso giunge da questi Versi esicasti (in parte già apparsi in una cartella d’arte, curata da Eugenio De Signoribus, e nel libro collettaneo Poetry Quartet), che ripropongono – per quanto attiene al loro aspetto formale – le consuete preferenze lessicali e ritmiche dell’autore, ripetendo quasi come un formulario le cadenze e gli abbellimenti retorici vagamente richiamanti tradizionali cliché; mentre – sotto il profilo contenutistico – ribadiscono la tendenza a un neoplatonico misticismo, espresso intorno a nuclei tematici scaturiti da una visione contemplativa della vita, e da inebriamenti spirituali costeggianti un’estasi placida e, al contempo, severa, che si disvela in una chiave lirica raffinata e sottile. Per tali ragioni il nostro si colloca consapevolmente nell’attuale panorama poetico su posizioni minoritarie di retroguardia, che si configurano nella regressione verso canoni poetici pregressi. Nel confermare con la presente opera la propria scelta e adesione a una ben definita “scuola”, egli, tuttavia, col suo suadente verseggiare, ricco di interne modulazioni e formalmente rigoroso, riesce a esprimere una sillabazione e una musicalità che non diventano mai imitative, dimostrando d’essere riuscito a dotarsi di un proprio riconoscibile linguaggio, sperimentalmente reinventato su schemi tradizionali. Linguaggio con cui tenta di ricostruire in chiave classicistica un discorso poetico atomizzato dalla neoavanguardia e impoverito da altre correnti letterarie tardo-novecentesche. La sua poesia, pertanto, potrebbe risultare spiazzante per il lettore medio, dalla visuale limitata e circoscritta, refrattario ad ogni espressione lirica che sia estranea ai vari canoni del secondo Novecento, e apparire, all’occhio dello stesso lettore, inattuale e obsoleta; mentre in realtà rappresenta il paradigmatico campione di uno dei tanti indirizzi della variegata e complessa produzione poetica attuale. Fedele a una poesia di elegante fattura, composta in genere da brevi componimenti (quartine rimate, lasse liriche, sonetti irregolari, ecc.), l’autore di questa elegante silloge, dalla scrittura levigata e di estrema politezza, dimostra di essere in possesso, oltre che di una collaudata praxis di artigianato poetico, di un gusto spiccato per il neoclassico e il neobarocco, nonché di notevoli potenzialità fantastiche capacità creative. Al di là delle formule metriche e delle espressioni linguistiche che ha l’abitudine (e, forse, il manieristico vezzo) di adottare, nella sua poesia si coglie la traccia di una personale temperie morale, di una costante attenzione al proprio mondo interiore, di una ricerca di intima auscultazione, anche quando apparentemente egli tenta di porsi fuori dal proprio io e di volere espandersi nelle cose. La sua poesia infatti tende sempre a chiudersi, a isolarsi, esprimendo una malinconia solipsistica sentita più che cercata. Per cui questi versi, costruiti con sapiente tessitura metrica, rivelano vibrazioni sentimentali che quasi sempre si risolvono in intense e meditate visioni interiori. Nella lettera di Bruno Pinchard all’autore, posta in apertura della silloge, l’illustre filosofo francese coglie bene tale situazione d’ordine spirituale, quando dice di scorgere in questi versi il “monastero” che D’Angelo “sogna nella sua solitudine”, e di “intuirne in anticipo il suo ritiro e il suo distacco, facendo spazio al suo silenzio”. Aggiungendo più avanti che quel “distacco trova nell’esicasmo dell’artista il suolo idoneo e il suo compimento nella preghiera, in quanto opera, e nella silenziosa serenità, in quanto perfezione di parola”. La raccolta risulta omogenea e compatta sia dal punto di vista stilistico che contenutistico, tuttavia mi sembra di poter segnalare un certo numero di poesie che più di altre (e forse anche più del libro nel suo insieme) ritengo riuscite e che qui intendo, senza scendere in dettagli che ne motivino la scelta, suggerirne i titoli, secondo un giudizio soggettivo consistente forse unicamente nel fatto che, apprezzandole molto, sono tornato più volte a rileggerle. Esse sono: “Tempi”, “Se acqua e cielo”, “Congiunzione”, “Iniziatica”, “Il cigno”, e soprattutto “O malinconico cuore”, che qui di seguito trascrivo per intero affinché i lettori possano constatarne e apprezzarne la pregevole fattura: “O malinconico cuore, io non conto / di lasciarti da solo per il mondo / quando a me il rinunciarti duole / perché per te solo nacque l’amore / per quella morte sopravvivente / per quella vita soprammorente / credo che nelle stille dei colori /sento negli echi di parole… / e di ciascuna sono in parte / l’aria stregata da foglie nel vento/e in quell’altra restata uguale / la zolla galleggiante del sentimento / o la luna che riluce avendo / oltrepassato il limite mortale / o il sole che riduce avendo / oltrepassato il limite vitale”. Concludendo, e citando ancora Pinchard, nella parte finale della sua lettera egli dice di aver ricevuto “con un misto di rispetto e di incanto” i versi di Enrico D’Angelo e, dopo averli confrontati con le “giustapposizioni avventate” in cui attualmente versa la poesia, ritiene sia arrivato il momento che per lui giungano “le lodi che merita e i benefici del giudizio sapiente che gli spetta”. Ciò che anch’io auspico per D’Angelo e sinceramente gli auguro.