‘JUCCI’ DI FRANCO BUFFONI

JUCCI DI FRANCO BUFFONI

Il primo libro di poesia di Franco Buffoni dopo l’Oscar uscito ormai nel 2012, Jucci (Mondadori) è in realtà un romanzo in versi o, se vogliamo stare nel genere annunciato, un poema d’amore per Jucci, l’eponima, inedita protagonista femminile, amata in gioventù dall’io poetante (lo spiegherà la nota finale), a cui si dà direttamente voce nelle strofe in corsivo. È un romanzo d’amore tragico, che culmina nell’evento luttuoso e che diventa dunque da un certo momento requiem per la donna morta. Un requiem paradossale, certo, che si cambia assai spesso, nella prospettiva postuma scelta dal libro, in un inno alla bellezza, ma soprattutto alla forza ottusa e cieca che possiede chi ama («Perché io innamorata sono dentro di te, /  Più ti scuoti per allontanarmi / Più io penetro in profondità»). Si profila anche qui come in altri libri dell’autore la restituzione di una sorta di Bildung, in cui il motivo del rifiuto è l’occasione, per chi lo subisce ma anche per chi ne è artefice (consapevole o incolpevole, non rileva), di una riflessione personale e storica. Quello dell’incontro con la donna amata (non in esclusiva, e insieme ad altri tormentati e più o meno fugaci interlocutori) è anche, per chi scrive, il momento della progressiva presa d’atto della propria identità, momento che passa attraverso l’acquisizione della condizione omosessuale come irrefutabile (più dell’amore: o di quello di Jucci, evidentemente). Buffoni a questo punto si autocita, riprendendo quel passaggio del Profilo del Rosa in cui l’omosessuale viene identificato dai segnali esteriori, da quel «bottone allacciato sottogola» che funge da distintiva marca di una configurazione precocemente rinnegata: non è il come, né il perché (così ottusamente ricercato, a tutt’oggi, nelle cosiddette condizioni socioambientali), ma il «si è»: comincia così, la presa d’atto, che coincide cronologicamente con l’avvio dell’esperienza d’amore (per Jucci e non solo, si diceva), marchiata a fuoco dall’inesorabile distanza. Che questa sia la cifra del «racconto» ce lo dicono due momenti chiave del libro, dal forte connotato simbolico: anzitutto la sequenza del funerale di Jucci, in cui il fuoco si sposta su ciò che accade intorno, entro l’ennesimo «melodramma della reticenza» così tipico del Nostro a giudizio di Alessandro Baldacci (prefatore di Buffoni in Parola plurale). Niente città vedova per la morte della Beatrice in causa, bensì la fulminea apparizione salvifica del ragazzo in tuta («un bel ragazzo in tuta»), che forse va a lavorare o a studiare o più semplicemente a correre, in questo transito energetico insensato («e non significa nulla») dalla morte della donna alla vita rinnovata dall’attrazione sensuale. L’altro passaggio di consegne avverrà poco oltre, quando sarà proprio la morte di Jucci ad ammonire il soggetto a preservare la propria, di vita: «Sei morta per costringermi / Al referto in carta velina, / Per mandarmi in tempo alla tac  /E farmi operare / Prima». E, in hýsteron próteron, la sintesi agghiacciante (ma umanissima): «Senza la tua morte / Sarei già morto / Invece sono vivo e lo scrivo»). Ecco che il «si è» di una delle poesie incipitarie non vale solo come affermazione netta della propria inclinazione sentimentale ed erotica, bensì come il precipitato di un’evidenza dolorosa quanto ineluttabile: «si è» sottomessi alla legge dell’alternanza e dell’assenza, che vale per il ciclo vita-morte (quando ci siamo noi…), come per quella dei rapporti, nei quali meno si corrisponde l’amore quanto più si è amati, in barba alla reciprocità e irrecusabilità di continiana memoria. E che siano i luoghi (ancora una volta) montani, ma più in generale naturali, i testimoni freddi di tale evidenza, la rende non già rasserenante ma sempre più smisuratamente ingiustificata: proprio come quella forma di donna «di volto mezzo tra bello e terribile» che rappresentava l’incarnazione della natura stessa nell’operetta leopardiana. Qui, da Jucci, nessuna espressa minaccia o reale terribilità, se non quella «invarianza» (citando un titolo “parlante” della raccolta) che è un riflesso immediato delle cose, dei transiti, dell’avvicendarsi degli stati: «[…] dopo la tua morte imparai / Che non ci sono ragioni, / Non si nasce né si diventa: / Si è. Con la verità infilata dentro / Come un orecchino».

Gilda Policastro

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