UN POEMETTO DI DANIELE CAVICCHIA
“La settima volta che la rividi fu in un sogno,/accarezzava l’erba che copriva/le cicatrici del mondo e mi suggeriva/una preghiera che solo in paradiso/poteva essere udita,/la guardai come un segreto da custodire.” Questi sono i versi del XVIII capitolo (stavo per dire canto) del poemetto di Daniele Cavicchia “La solitudine del fuoco” che occupa gran parte delle pagine del suo libro omonimo e ne è il cuore, il centro e anche una specie di nucleo germinativo. Ci sono, in questi versi, quattro parole che mi sembrano assai significative, da usare come passe-partout o come grimaldello per l’intero libro. Le parole sono sogno, segreto, cicatrici, preghiera. L’universo espressivo e poetico di Cavicchia è molto compatto e quasi inscalfibile, ma usando le chiavi giuste, si può penetrare nel suo fortilizio per lasciarsi invadere dalla presenza carica della parola, dai suoi sentimenti e dalle sue profonde emozioni. Così, si crea il bisogno di un ascolto, di un’apertura, di un lasciarsi invadere, di un lasciarsi occupare da quello che il testo provoca in noi. La prima parola è sogno. Tutto il poemetto di Daniele Cavicchia è come una lunga comunicazione continuamente interrotta e ripresa. Dialoghi a mezza bocca, come li ha definiti Dacia Maraini. Lui, la voce che parla, lei, l’angelo… Gli interlocutori sono come continuamente sfuggenti, intonano parole che diventano altre parole, si perdono nel riconoscersi con chi sta parlando, si ritrovano mentre ciò che dicono lentamente svapora e si perde e poi sembra riaffiorare. Si scambiano le interrogazioni e le possibili risposte e le piste delle affermazioni e delle risposte si confondono e formano altre piste misteriosamente allusive. Ciò che l’uno dice l’altro lo afferma negandolo o lo nega affermandolo. Sembrano costruire un discorso, il senso di un discorso, l’itinerario di un viaggio che poi si capovolge e si dissemina. Lasciano orme che il vento subito cancella e deposita da un’altra parte. Sembrano trasalire appena lo sguardo li agita un po’. Il poema è esso stesso filato come un lungo racconto. Cavicchia è anche narratore. E continua a narrare a suo modo anche quando scrive versi. Tutto il poema porta i segni di un racconto che fa e si disfa, lascia proprio come delle impronte di un racconto assente, di un romanzo cui si allude, qualcosa è accaduto, qualcosa continua ad accadere, qualcosa si finirà e tutto poi ricomincerà con un altro ordine, un’altra combinazione. Direi un’astrazione di romanzo, una sagoma appena coperta. C’è sicuramente continuità tra lo scrittore di racconti e il poeta, nell’impostazione della sua voce nell’organizzare i dati dell’esperienza e i dati dell’immaginazione. La solitudine del fuoco si potrebbe dire word in progress che non approda da nessuna parte, con atmosfere e dimensioni che giungono come da un mondo sfuggito, come contemplato in una dimensione purgatoriale, che va e viene appunto nella dimensione del sogno, o meglio nell’attenzione fluttuante del dormiveglia in cui i contorni delle cose, la consistenza del mondo è esatta e insieme baluginante. Luzi, parlando di un precedente libro di Daniele Cavicchia, ha parlato di un poeta acceso e visionario. Io aggiungerei un poeta a suo modo onirico in cui le figure, i colori, le consistenze degli oggetti e dei movimenti, i paesaggi (che non sono mai urbani ma molto naturali, fatti di alberi, piante, prati, fiumi, colline) trasaliscono appena li agiti, come muovendosi verso una loro nuova definizione e loro momentanea rimessa a fuoco della loro primitiva immagine. La seconda parola è segreto. “Il mistero evapora, si dilata/Tra materia e luce, tra colonne /di fuoco che resistono nei sogni/disturbati. Tu sai quando l’ho vista/la prima volta. E sai dell’ultima.” Gli interrogativi, le domande senza risposta e le risposte che non hanno domande si affidano ad apparizione, a una voce, a quella misteriosa apparizione che si ripete mentre si svolgono i dialoghi con personaggi assenti e presenti, nello stesso tempo nella maniera più profonda perché assenti nella dimensione materiale. La misteriosa apparizione è come una voce che si guarda e guardandosi o specchiandosi in sé, si ridà voce e in quella voce zampilla la piena delle parole, il flusso delle sue giaculatorie. Una voce che diventa vicinissima, inconfondibile, e fa ritrovare al lettore la memoria della sua stessa indicibile esperienza. Ma qual è la natura di questa voce attraverso cui si manifesta, prende forma e sostanza la sua parola, attraverso cui prendono forma e sostanza le sue giaculatorie? Ha ragione Sergio Givone che ha cercato di decifrare la natura anche sapienziale, non filosofica del poemetto di Daniele Cavicchia. Parlava a proposito della seconda parte della sua “Trilogia”, ma credo che valga in modo particolare anche per “La solitudine del fuoco”. Direi che ogni idea filosofica stonerebbe, sarebbe un’aggiunta, una postilla, un commento e Cavicchia non è poeta che vuole ragionare quando fa i versi. Diciamo che è un poeta inconsapevole quel tanto che basta e consapevole quel tanto che serve. Quella di Cavicchia è la voce che appresta ad ascoltare il silenzio senza speranza di poterlo decifrare. Quella è la voce che annunzia un segreto, qualcosa che non accadrà, quel segreto che vuole restare nascosto o sigillato nell’anima, né può essere dissigillato. Quella voce è la voce che indica non solo l’enigma da sciogliere, ma una ricerca da compiere, un viaggio da intraprendere. Luoghi, paesaggi, persone, situazioni: l’unica esplorazione possibile è rappresentata dal viaggio, dall’avventura, quell’avventura che si svolge negli spazi non mai abbastanza percorsi e misurati che la letteratura ha fondato in alternativa all’oggettività, nel puro movimento tra gli automatismi fantastici della mente. La terza parola è cicatrici. “O vuoi dire che non l’ho udita/e che dal tuo mondo hai già parlato?/Forse era la tua risposta /quella confusione di nuvole/da cui insisteva un raggio?/Lo stesso che ferì il mio occhio/che spesso lacrima e a volte non vede?” La misteriosa apparizione che si pone al centro del poema di Cavicchia, è come una parola non detta, ma continuamente sul punto di essere detta. E’ un’osservazione, un flusso di parole non dette ma sul punto di essere dette, frapposte tra il sé e il tempo/luogo in cui ci si trova, in cui il lettore ha situato momentaneamente la percezione dell’essere e del suo esserci. Cioè si trova, il lettore, come stordito di fronte ad un paesaggio che nel cinema sarebbe di aspre e ossessive dissolvenze incrociate. Si trova spiazzato di fronte ad un tempo –il tempo del poema- che è fluttuante e onirico, senza un suo qualche rilievo storico o di cronologia personale, anche se i casi di una biografia personale sono sullo sfondo. Ecco il punto. Dolorosamente quei casi sovrastano risucchiati in un antefatto d’angoscia che alimenta ogni parola, colora ogni sentimento, come fiocchi di neve che chiudono il paesaggio, ne segnano in modo inequivocabile la fisionomia. Questa situazione, quest’antefatto s’insinuano <nello strenuo battere dell’onda del ricordo, nella dolorosa declinazione dialogica di un nome perduto>, com’è stato scritto da Marco Tornar. Cavicchia li ha fissati in alcuni versi davvero significativi della sua precedente raccolta “Dal Libro di Micol”. Dicono semplicemente questi versi delineando una sorta di nucleo germinativo che si potrebbe dire sfuggente ad ogni presa di senso, ma di una verità profonda e intangibile, più profonda di ogni linguaggio con cui s’identifica: “Esiste un ordine delle cose/che l’uomo deve rispettare/e nessuno/può rendere immortale un proprio caro.” Così in quei versi la poesia di Daniele Cavicchia è una sfida al luogo comune che vuole ineffabile l’esperienza della morte, un mistero che schiaccia sotto il suo peso. Riesce a dare ai paesaggi, ai gesti, agli incontri che testimoniano l’angoscia della perdita il senso profondo del dolore di cui il lettore copre lo svelamento di sé nell’incomprensibilità del mondo. La quarta e ultima parola è preghiera:“Dimmi, allora,/che nel tuo tempo/tutto viene/conservato,/Dimmi, se vuoi,/Dim-mi/se cre-de-re/Dimmi /quale preghiera/Dim-mi, se vuoi/oltre le parole./E così sia.” La parola della poesia, questo strumento della sua menzogna attraversato da parte a parte dal problema della sua verità. La poesia coincide con la sua inconsistenza, replica il destino stesso della vita, l’essere appena l’inizio di un discorso. <La verità abita una parola ancora da scrivere> dice un verso di Daniele Cavicchia. Si potrebbe ancora dire: è il “non so” . il “quasi niente” di Jankélevich, la voce di una verità che non si da mai in modo definivo. Incarna l’idea della parola come dono che si fa agli altri, e può riscattare dal proprio dolore. Il viaggio che è stato compiuto, l’impresa che si è apparentemente realizzata tendono alla soluzione conclusiva della formula che li riportino all’inizio del viaggio, al primo cenno dell’impresa. Gli interrogativi sono affidati ad una voce inafferrabile che consegna se stessa ad un’enumerazione drammatica e fulminante. La poesia non può rivelare la verità. Ma almeno può crearla, la verità, attraverso la parola. “La poesia è un discorso/che viene a sorprenderti dal futuro/arriva e tu non la riconosci/poi ti disseta e stordisce/alla fine ti disconosce”. La mappa delineata dalle quattro parole chiave: sogno, segreto cicatrici, preghiera – si potrebbe dire con Bateson – coincide con l’intero territorio del già detto che apre l’infinita possibilità di tutto ciò che ancora deve essere detto. E finisce per evocare le connotazioni della poesia di Cavicchia: la complessità dissimulata in canto e preghiera, l’ossessiva affabilità interrogativa la sfuggevole trasparenza figurativa.