IL PRESENTE INSONORIZZATO DI TOMMASO DI FRANCESCO
Esiste una poesia che dichiara esplicitamente i suoi temi e le sue occasioni, la sua postura e la sua pronuncia davanti ai fatti dell’esistenza. È questa una poesia sempre databile, parafrasarle, disposta più o meno volentieri, cioè più o meno consapevolmente, a farsi leggere e archiviare entro il cosiddetto spirito del tempo e le sue medesime occasioni: il maggioritario poetico, indipendentemente dalla qualità dei versi, oggi ad altro non ambisce, infatti, se non alla tempestività e alla memorabilità della propria dizione. Cinquant’anni oramai di scritture poetiche, unitamente a prose di racconto e di romanzo, collocano viceversa la parabola di Tommaso Di Francesco su un versante di infungibilità e di consapevole, vigile e non meno rigorosa, alterità rispetto all’orizzonte di attesa. La sua costellazione è da molto tempo definita (esordì nel 1968 su «Nuovi Argomenti» grazie a Pier Paolo Pasolini, le sue partiture furono in seguito avallate fra gli altri da Franco Fortini), i suoi compagni di via sono ancora ben riconoscibili (figure resistenti e reliquiarie di autori isolati nella congiuntura terminale del secolo scorso, oltre le ipoteche e gli interdetti della neoavanguardia), ma è propria e in esclusiva di Di Francesco una testualità che interroga il qui-e-ora, si dica pure i destini generali o lo status del «noi», per interiore vicissitudine e drammatico metabolismo dell’«io». Perciò Tommaso Di Francesco diviene, senza doverlo affatto proclamare, un poeta epico non per un preventivo rifiuto ma per la messa in mora, dal profondo, della funzione lirica come in una perpetua colluttazione fra il dentro e il fuori della percezione e della nominazione. Metrica classicamente sorvegliata, nuda incisione del segno ai limiti dell’epigramma, assenza o quasi di nomi propri e calcolata penuria di riferimenti spazio-temporali, dicono di un autore vocato non già alla auscultazione dei locali «significati» del vivere ma alla conformazione di un possibile «senso» complessivo e pertanto di una direzione centrifuga da opporre all’hic-et-nunc e alla dittatura di un presente (il dominio della forma-merce, la ritrovata ovvietà della guerra, la metafisica del migliore dei mondi possibili) che si presume intangibile e invalicabile. Lo testimonia ora il libro della compiuta maturità, Reificar Vicenda silente (Manni), il quale esce accompagnato da una molto nitida prefazione di Giorgio Luzzi. È detto in un incipit: «Di mestiere taciturno contorno / zitta la limonaia oltre il muro / lancia traiettorie di frontiere / attorno al vuoto di stati inesistenti / delle cose cosificate presenti». All’intorno, tutto dunque prende forma di cosa, di oggetto allontanato o deprivato mentre la sola musica possibile esala a soprassalti come in un sordo propagarsi nel silenzio. Ogni verso contiene implicitamente una domanda richiamando il passato (il padre, la madre, anonimi figuranti) e la traduce in un presente insonorizzato. Sensazioni di vuoto e di assenza premono sulla scansione ritmica e alterano il verso, la sua fonetica o la sua disposizione lineare, ma solo per quel tanto che basta a spiazzarne gli automatismi. Certi décalage di Tommaso Di Francesco (per esempio: «e regalava parabellum giocattoli / a sostituire in plastica deforme / l’insopprimibile unto suo dolore / e malasorte e malaccantonamenti / della sempre uguale periferia di sé») equivalgono a stati di perplessità costernata e di deriva impercettibile, a istanti di acuminata e addolorata incompiutezza. Non c’è nostalgia ma subentra un trasalire malinconico davanti a quegli iati, a quei vuoti che compongono, o ambirebbero sinistramente a farlo, la presunta normalità del nostro vivere. Sì, per lo più quella inclusa nella poesia di Tommaso Di Francesco è vita ridotta a cosa, a una inerzia da dove occhieggiano comunque, a momenti, frantumi di imprevista lucentezza, brevi estasi del quotidiano che non sanno neppure di esserlo: si tratta di tenere premonizioni, delle istantanee profezie di un necessario altrove ma tuttavia disponibili nella loro arresa datità, come scrisse un maestro, a farsi movimento e luce.